Posts by nadiolinda

L’eugenetica del Gabibbo

Il mio treno rientra da Roma alle 21:55. Siamo al binario 7. Durante il viaggio, ho letto Ausmerzen, il testo che Marco Paolini ha pubblicato dopo l’omonimo spettacolo. Dentro ci racconta una storia atroce, che tutti conosciamo ma che non sappiamo nei dettagli. Ci racconta di eugenetica: quel sistema che unisce pensiero, scienza, politica e sociologia e che ha a che fare con la distinzione non solo delle razze, ma anche delle persone. Una categorizzazione tra degni e indegni, tra utili e inutili. Tra meritevoli e parassiti. Tra chi va aiutato e chi va eliminato. Il libro non è solo estremamente intenso e coinvolgente. È anche indispensabile per capire come alcune idee possano ciclicamente tornare a serpeggiare, di come la propaganda possa riuscire efficacemente a promuoverle al punto che diventano nostre, ci appartengono. E le applichiamo nelle nostre azioni quotidiane. O, meglio, molto più spesso, in ciò che non facciamo.

Non si è spettatori di colpe di altri, è un «viaggio allucinante» dentro noi stessi, con un bagaglio crescente di dubbi, di domande difficili, di analogie con altri fatti, altri uomini, con la quotidianità di ogni giorno.

da Simone Casetta - Fanno finta di non esserci (2011)

Un esempio su tutti.
Ieri sera torno da Roma con il treno delle 21:55.
Sul binario, cammino trascinando la valigia. Di fronte a me, una signora dalla pelle color dell’ebano. Ha un bambino legato sulla schiena che dorme tanto beato quanto spalmato. Una bella bimba con due codini le tiene la mano. La signora ha due bambini, una borsa, una valigia, un passeggino carico di cose. Ma ha anche altro: una sacca enorme, caricata allo stremo della capienza. Un uomo gliela allunga dal vagone. La borsa è troppo carica. Lui pensa di aver già fatto fin troppo. La borsa si rompe. Un bricco di latte condensato rotola sotto il treno. L’uomo se ne va. È corrucciato e scuote la testa. La signora ha due bambini, uno a spalle, una per mano, una borsa, una valigia, un passeggino carico di cose e una sacca rotta con il cibo sparpagliato per terra. Vicino a lei, i passeggeri scendono assonnati e indifferenti. Poco alla volta, svuotano il marciapiede.
Restiamo io e tre ragazzi, tutti con un piccolo trolley.
Vorrei chiederle come succede che sul mio stesso treno possiamo viaggiare io che mi sono fatta una festa della mamma senza bambini a Roma e lei che viaggia portandosi dietro 60 kg di latte. Non mi sembra il caso. Mi fermo invece a chiederle se ha bisogno di aiuto. Una domanda stupida: certo che ne ha bisogno.
Mi chiede se posso aiutarla a recuperare il bricco di latte caduto sotto il treno.
La situazione è davvero grave.

La questione non è il fumo in sé: è il fumo in me. E quando toccherà a noi ? […] Ciò su cui stiamo riflettendo sono elementi sottili, come sottile è la depersonalizzazione collettiva per cui diventa normale non reagire e farsi i fatti propri.

da Simone Casetta - Fanno finta di non esserci (2011)

In qualche modo, io e uno dei ragazzi che si è fermato (gli altri se ne sono andati: erano stanchi) siamo riusciti a compattare la sacca e caricarla sul passeggino. Ad aiutare la donna è arrivata una sua amica, in abito lungo e ciabatte. Ho caricato una borsa sulla spalla, ho preso la bimba per mano e ci siamo avviate alle scale.
La stazione di Brescia è piena di scale, come tutte le stazioni dei treni.
La civiltà di una città si misura anche da questo: la vita è fatta a scale, chi le sale e chi, anche volendo, non può.
Ma gli altri, quelli che non si fanno domande, cosa pensano? Forse, chissenefrega. Forse, non è un problema mio. Forse, se lo meritano.
A portar giù tutto quel peso non ce la potevamo fare. Abbiamo chiesto aiuto.
Giù dalle scale, anche il ragazzo che ci ha aiutato se n’è andato: suo padre gli ha detto che aveva fatto abbastanza. E poi fuori pioveva.

La scienza diede il proprio avvallo, la chiesa tacque, molti girarono lo sguardo altrove. Poi, fu troppo tardi.

Siamo arrivate sotto la scalinata più difficile, quella che porta all’uscita.
Che fortuna, ho pensato: c’è un ascensore per disabili.
Il campanello dice: suonare per chiamare il responsabile della stazione.
Suono.
Aspettiamo.
Suono.
Aspettiamo.
Suono.
Aspettiamo.

Aspettiamo.

Aspettiamo.

Chi aspetta, ha fiducia. Ma chi aspetta troppo finisce per disperare. Sono andata a chiedere aiuto. Un gruppo di ragazzi col cappello da alpini, un po’ a malavoglia, ci hanno fatto da facchini. Ho chiesto alle donne se ci fosse qualcuno che sarebbe venuto a prenderle. Mi hanno ringraziato moltissimo, ma non hanno risposto alla mia domanda. Ho salutato la bimba e mi sono avviata verso casa.
Prima dell’uscita, ho incrociato un poliziotto in divisa. Stava chiacchierando con una coppia di soldati in mimetica, un lui e una lei.
Gli ho detto del campanello che non chiama nessuno, né l’ascensore né il responsabile della stazione.
Dice che a quell’ora non c’è nessun responsabile in stazione. Dice anche che quel bellissimo ascensore cromato ThyssenKrupp non ha mai funzionato. Che è stata alla stazione di Brescia anche Striscia la Notizia. Eppure, nemmeno loro hanno fatto il miracolo.
«E se non ci riescono loro, di certo non possiamo farlo noi» dice.
Ah, ecco. Il Gabibbo.

da Simone Casetta - Fanno finta di non esserci (2011)

 

PS: Le fotografie di questo post sono tratte dal libro fotografico “Fanno finta di non esserci” fotografie di Simone Casetta con un testo di John Berger. Sono scatti di resti umani anatomici conservati nei sotterranei di un noto istituto ospedaliero della capitale. Sono resti anatomici, feti, parti di corpi che la medicina ha imbalsamato per scopi scientifici. Sono uomini senza nome, bambini gravemente deformati, corpi di grande interesse scientifico e nessun valore umano. Appartengono a un passato molto recente, qualcuno di loro potrebbe avere l’età di un parente a noi caro e ancora vicino. Per il fascismo, sono state vite utili solo per la medicina. E in questo stato, senza riconoscimento, senza nomi se non quelli della patologia che li ha afflitti mortalmente, riposano, dimenticate. Informazioni sul fotografo e sul libro le trovate qui.

Il cuore oltre la cattedra

Marco Cacciola e Angelo di Genio in The History Boys - prod.Teatridithalia, 2011

Mercoledì sera sono stata a vedere The History Boys.
Volevo vederlo tantissimo. E ho fatto bene.
Non ero la sola: il teatro era stracolmo. E quando dico stra, intendo davvero stra. Insomma: pienone. E qui ci sta un piccolo appello a chi acquista gli spettacoli del cartellone stagionale: uno spettacolo così avrebbe riempito la sala per due settimane. Perché limitarsi ad averlo qui solo per due date?Comunque, non è di questo che scriverò.
Di recensioni entusiaste è piena la carta e zeppo il web. Sono tutte vere. Perciò, se non c’eravate, rosicate pure: mai ci fu momento migliore di questo per invidiare chi l’ha visto.
Vi parlerò invece di una delle scene clou dello spettacolo. Non perché fosse un pilastro della storia, ma perché è una di quelle scene che ti piglia a mano salda per la gola e ti appende a un muro lì, come un salame. Una di quelle scene in cui ci siamo dentro tutti. E anche una di quelle che tocca un tasto troppo intimo per essere confessato apertamente. E però ha suonato eccome.
La scena era questa.

Alla fine degli esami di ammissione per il college, il professor Irwin viene stretto in un angolo dal suo allievo più spavaldo e dirompente nonché suo pupillo, Dakin. Il ragazzo ci prova spudoratamente col prof e tenta in tutti i modi di sedurlo.

Non voglio qui raccontarvi il contorno della vicenda perché svierebbe dal nocciolo della questione. La scena poco sopra descritta dura spannometricamente una decina di minuti. È un pressing seduttivo estenuante. Dakin usa la tecnica della confessione totale: dichiara i suoi intenti e accerchia la preda senza darle tregua.
E bisogna dirlo: ce l’ha fatta, almeno con noi. La scena un po’ ci ha arrapato e, quando è finita, non eravamo più gli stessi spettatori di prima.

E su, dai, confessatelo. Alzi la mano chi non ha mai sognato, almeno una volta nella sua vita scolastica, di chiudere all’angolo un prof, di ruolo o supplente che fosse, per il quale si perdeva in ore e ore di fantasie. In fondo, è una di quelle tappe che rientra appieno nel percorso di formazione: il cuore gettato al di là della cattedra.
Tra i miei ricordi, un professore d’arte (docente e artista: non avevo scampo!) delle medie, supplente, bello come un cristo alla Zeffirelli. Sospiravo, sognando che mi regalasse uno di quei disegni che gli vedevo fare di nascosto per una delle sue fidanzate durante le verifiche.

Ma il cuore oltre la cattedra è fatto per un sogno d’amore che deve necessariamente rimanere così: epico, romantico, intatto. Una verginità sentimentale da custodire gelosamente.
Abbiamo sospirato tutti al ricordo di quell’amore solo nostro che ci ha accompagnato fino alla laurea. E magari, qualche volta, anche oltre.

Un altro momento della scena: Prof le devo chiedere una cosa…

Ma i tempi sono cambiati, dicono gli amici che oggi, dietro quella cattedra, ci lavorano.
Una, per esempio, ha lunghi capelli ricci e rossi naturali e un seno prorompente. Insegna Leopardi che quando ti legge L’Infinito ti viene voglia di piantare una siepe sul davanzale della classe solo perché tu e lei possiate nascondervi dal mondo a parlare di poesia per sempre.
Un’altra è nuotatrice, con la pelle colore delle olive del sud e i lineamenti duri di quelli che sono scampati alle foibe. Quando comincia a raccontartela, la filosofia, capisci che senso ha e ti senti parte di questo continuo flusso di pensiero che scorre impetuoso attraverso la storia.
Se anche un tempo loro stesse amarono, oggi sono oggetto di attenzioni e fantasie dei loro allievi. Che sono, come tutti gli adolescenti, bellissimi e confusi; stelle fatte di sogni, energia e ormoni.
A differenza di ciò che avremmo fatto noi (cioè: assolutamente nulla), loro avanches come quelle di Dakin le fanno. Eccome se le fanno. Così sfacciate che, ancor prima di capire come rispondere, ti viene da chiederti dove le abbiano imparate.
La sessualizzazione è una tecnica di marketing molto efficace; e viene applicata sistematicamente con strategie ben definite fin da bambini. Così, all’età in cui bisognerebbe solo amare, gli animi mettono avanti i corpi. Consumare è una garanzia di piacere.
Le mie amiche mi raccontano quanto è difficile tener testa a ragazzi così. Un po’ perché il rispetto per gli insegnanti è riconosciuto diversamente tra prof uomini e prof donne. E poi perché quello dei ragazzi è un disperato bisogno di conferme; e il possesso (quanto meno sessuale) è l’unica dimostrazione evidente di interesse che riconoscono e valutano.
Ma le mie amiche, e anche io, crediamo che in questo debba esserci un valore educativo imprescindibile: il rifiuto deve essere categorico e inviolabile perché è l’adulto quello che deve salvaguardare il sentimento, che ne conosce il valore.

Nella commedia, il professor Irwin cede.
Nella vita anche conosco professori che hanno detto di sì. E perfino storie d’amore nate tra un banco e una cattedra che sono durate più del corso di studi.
La cronaca dimostra che è un puro caso se io conosco donne che dicono no e uomini che dicono sì. La realtà racconta che sono sempre di meno i docenti che rifiutano il sesso per preservare il sogno d’amore.
E questo, va detto senza morale, è un vero delitto passionale.

Cansa de ser sexy

Abbiamo creato un mostro!
Personalmente, ne ho sentito parlare al bar dell’ospedale. Se ne discuteva tra baristi, OST, chirurghi, professori emeriti e pazienti. Un’amico mi ha inviato un sms dal gate d’imbarco a Malpensa: anche lì se ne parlava tra passeggeri, guardie e hostess. A uno stuart disinteressato è stato dato del gay. Altre segnalazioni mi sono arrivate da uffici postali, esercizi pubblici, stanze del potere, persino da un consiglio comunale.

Quando se ne parla, sono chiamate in causa tutte le passioni deviate dell’uomo: l’invidia, la gelosia, la lussuria, il peccato, il tradimento, il senso del possesso, l’avidità.
Come la protagonista di una fiction ispirata a una trama shakespeariana, Laura Maggi ha invaso le nostre vite risvegliando passioni e assommando in sé la vecchia parabola della tentatrice, colei che coglie la mela e rende l’uomo vulnerabile e le altre donne rosicone.

Quando la redazione del Corriere della Sera mi ha chiesto di fare un commento alla linea gestionale del bar di Bagnolo, avevo in mente un mio piccolissimo omaggio allo stile di Aldo Grasso. Volevo portare il dibattito a un livello di analisi comparativa: la barista che si spoglia per aumentare il cassetto come le vallette di Sanremo nude per alzare lo share.
Con il senno di poi, mi rendo conto di essere stata troppo buona.

La questione è molto semplice: un pubblico esercizio deve sottostare alle normative che lo regolano. Il che significa che servire il caffè a capezzoli scoperti o girare con micro gonne senza mutande rientra appieno nel reato di atti osceni in luogo pubblico. Potete trovarne traccia nell’art. 527 e seguenti, ossia:
527: atti osceni
528: pubblicazioni e spettacoli osceni
529: atti e oggetti osceni -nozione.

L’art. 527 del codice penale italiano prevede che

chiunque, in luogo pubblico o aperto o esposto al pubblico, compie atti osceni è punito con la reclusione da tre mesi a tre anni.

Se la persona è handicappata, l’art. 36, comma 1 della legge 104/1992 inasprisce la pena di un terzo. Se invece “il fatto avviene per colpa, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da cinquantuno euro a trecentonove euro” come previsto dal secondo comma.
Perché si parli di reato, l’atto deve:
– essere osceno,
– essere commesso in un luogo pubblico, al quale cioè chiunque può accedere senza limitazioni di sorta e/o in un luogo aperto al pubblico e/o in un luogo esposto al pubblico.
Direi che siamo tutti d’accordo sul fatto che un bar-tabacchi rientra perfettamente in questa categoria.

A questo punto, il dibattito si sposta. E la questione diventa precisamente questa: se Laura Maggi è bella, può essere accusata di atti osceni in luogo pubblico?
La legge non prevede distinzioni tra belli e brutti; dunque la risposta è sì.

Laura Maggi mentre si asciuga le mani con discrezione

 

Laura Maggi mentre prepara i caffè

L’obiezione più diffusa (e utilizzata dalla stessa Maggi) è che il movente delle polemiche sulla gestione del suo esercizio sia l’invidia e la gelosia. Possiamo considerarla un’attenuante?
La legge presuppone che individui adulti nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali possano gestire le emozioni che normalmente animano la loro vita, comprese dunque la gelosia e l’invidia. Anche in questo caso, dunque, nessuna attenuante.

Laura Maggi mentre si fa un’analisi di coscienza

 

Laura Maggi mentre espone la regolare licenza

 

Si apre dunque un dibattito sulla pagina di Facebook in cui gli “Amici di Maggi Laura” pubblicano -tra le varie foto- la pagina del Corriere con l’articolo che la riguarda. Seleziono, per ovvi motivi di spazio (e altrettanti di estrema noia) i più significativi. Ossia:

Maurizio Botta – Il problema non è suo è delle consorti bigotte.
Stefano Gremo Fois – L’invidia brutta bestia fregatene l’importante è la felicità
Pietro Rossini – Che tristezza l’invidia.
Daniele Tesconi – Certo che se le moglie la daressero di piu e in modo diverso i mariti non andrebbero a cercare al trove dico bene?
Mauro Bonometti – Le mogli dopo che si sposano son sempre in tuta felpa papucce e con i mutandoni poi si lamentano se il marito va da quelle messe giuste
Stefano Lancini – Brava laura sei bellissima… sono solo gelose perchè sei più sexy di loro…
Luciano Zucca – Se mogli/fidanzate/amiche/parenti si dimostrassero più “gentili”, “carine” e “socevoli” con i loro congiunti non avrebbero nulla da temere da Laura!
Arianna Piazzetti – Tanto scalpore per cosa! Donne, ma voi che giudicate lei per il suo modo un po…stravagante… non vi vergognate alla festa della donna che andate a vedere gli spogliarelli e non commento gli sguardi di quando lo vedete…
Giordano Zaglio – Laura non fa del male a nessuno anzi dovrebbero ringraziarla che quando i mariti /fidanzati rientrano scaricano le loro attenzioni sulle proprie compagne.
Marco Gritti – Ma non anno un cazzo da fare le mogli a parte rompere le balle per un bar che lavora ..solo gelosia perche non possono permetterselo un kiss su quella linguetta

Dagli elegantissimi commenti, emerge chiaramente il tema dell’imitazione di modelli televisivi comunemente accettati e dunque, idealmente, replicabili nella vita di ogni giorno come espressione di libertà individuale e addirittura di coraggio. Non solo: ritorna il tema dell’invidia, soprattutto femminile, per un esemplare di bellezza e sensualità disinibita.
E infine, prende il sopravvento la maledizione di Eva: quando si tratta di sessualità, un uomo è innocente a priori.
La sua bestiale eccitazione deve essere vissuta da una donna come un premio, accolta come una benedizione, coltivata come missione primaria intorno a cui far ruotare la propria vita. Su questo principio, la femmina più volte posseduta diventa ipso facto poco attraente, noiosa; e dunque si ha il pieno diritto di rigettarla. E di nuovo sono le donne non solo a dover operare un mea-culpa per la mancata erotizzazione costante del proprio maschio, ma addirittura a ringraziare la barista Maggi per essere riuscita ad accendere il suo meccanico e più basso istinto spermatico.

E questo è il punto in cui sta la vera differenza.
Perché sul fatto che la legge debba intervenire e imporre all’esercizio pubblico di Bagnolo una condotta consona alle leggi dello stato in cui opera è un dato di fatto. Laura Maggi e le sue amiche sono libere di continuare la propria attività nei modi che preferiscono entro i limiti di legge. Il che significa che un pubblico esercizio in cui coesistano caffè e capezzoli potrà continuare ad esercitare solo se la giunta approverà nelle prossime settimane il nudismo come pratica accolta e accettata in Bagnolo.
Resta invece una distanza insormontabile tra questa barista e la sensualità. E direi che è ben rappresentato dal video realizzato da Studio Aperto e che potete trovare qui.

Galeotto fu il tampax

Al minuto 00:38, Laura si esibisce in una camminata ancheggiante per far capire allo spettatore tutta la sua carica erotica.
Il cameraman, allenato alla scuola Mediaset, la riprende da terra, con una prospettiva da sotto la gonna.
Per qualche secondo, dallo slip di Laura osserviamo il filo del tampax che scende e sventola.
Direi che in questo filmato è racchiuso il senso dell’erotismo incarnato da Laura Maggi. Che, non so a voi, ma a me fa lo stesso effetto del super porno show di fantozziana memoria.

Il caso di Bagnolo apre una ferita dolorosa, quella di un mondo in cui una sessualizzazione selvaggia, promossa dai media corporativi (tutti, indistintamente) e accettata da ogni componente della società (tutti, nessuno escluso) ha portato uomini e donne a sentirsi parte di una sorta di guerra erotica, in cui il sesso è un’arma, la sensualità una prova di forza, lo scambio sessuale una transazione e in cui sia necessario essere il più forte.
Mi dispiace per gli amici di Maggi Laura: io resto dell’opinione che la seduzione e l’eros stiano da un’altra parte.
Che forse sarà così nascosta da dubitare ogni tanto perfino che esista, come il punto G. Ma che di certo non si trova tra il filo dell’assorbente e un tanga troppo sottile per contenerlo.

Cassandra. la poetessa. la donna. il mito.

Tutto ciò che devono conoscere si svolgerà davanti ai loro occhi, ed essi non vedranno nulla. È così.

quando apollo ti sputa in bocca succede un gran casino. l’ultima a ricordarcelo è stata Christa Wolf, di cui è sul palco all’Elfo fino al 12 febbraio l’indimenticabile Cassandra. in scena, Ida Martinelli, consumata, magra, fiera come lo sono le donne quando vanno a morire sapendo di aver vissuto. in regia, Francesco Frongia, che con uno sguardo entomologico e un rigore beckettiano indaga gli ultimi giorni di chi ha vissuto col macigno del futuro sulle spalle. e per questo, ha sempre saputo di dover morire.

Nel fondo più profondo; nell’intimo più intimo, là dove corpo e anima non sono ancora divisi e dove non giunge parola, né pensiero, seppi tutto.

quando apollo ti sputa in bocca, non hai più scelta. ha vinto lui. tu sei preda, lui è la bestia. lo sono molti uomini, nella vita di Cassandra. lo sono molti uomini. lo è per primo il padre e per ultimo il carnefice. e quello che non è nel gruppo dei violenti, è non di meno tra quelli che abbandonano.
Cassandra muore sola. e a chi conosce il mito dai libri, questa morte può sembrare forse meglio di una vita in cinque parole: tu sai, nessuno ti crede. ma il merito di Christa Wolf è stato quello di farci ricordare perché aver allontanato il mito dalla nostra vita ha causato una frattura che non possiamo più rimarginare da soli.

Ma chi ha potere su ciò che gli viene in mente?

quando apollo ti sputa in bocca, è la bellezza a tormentarti. la necessità mai finita di raccontare bene e male a chi non vuole comprendere che essi coesistono nello stesso tempo, e luogo, e corpo, e azione. la necessità impellente di prospettare la morte, che non ha poesia, non ha senso, però esiste, ed è la certezza più concreta che possediamo.
quando abbiamo smarrito il mito, allontanandolo dalla nostra vita, abbiamo deciso di abbracciare la via più semplice per capire la vita, l’amore, la sofferenza, la lontananza, la sconfitta, il tormento ed ogni altro umano sentimento che per noi è diventato un’unione semplificata tra manifestazioni esteriori, una causa interiore, un effetto concreto e una zona grigia senza morale, senza spiegazione e, in definitiva, senza interesse. eppure è lì, in quella zona di grigio che ci accomuna, che si annida l’essenza della vita: saper comprendere le ragioni universali di ognuno, capire ciò che ci spinge verso il futuro non per tentare di ingannare o procrastinare il destino, quanto per rendere consapevole e prezioso ogni nostro atto rapportandolo ad esso.

ci mancherà Christa Wolf poiché la sua penna, intrisa della saliva di apollo, ci ha ricordato quanta anima abbiamo immolato sull’altare del corpo immortale,nostra più oscena e immorale resa. ci mancherà, quanto ci mancano Cassandra e le altre.
ed è chiaro a tutti: a Ida Martinelli, che sera dopo sera si consuma nel riportare in vita il dolore di una solitaria che urla controvento; a noi che grazie alla fatica di una poetessa riusciamo finalmente ad ascoltarla. e a capirla.
giacché il mito non serve più che a questo: ascoltare, essere ascoltati.

Risa antiche, di secoli. L’eco, immane, più volte spezzata.
E il sospetto che nulla più verrà all’infuori di questa risonanza.

ehi. andate a vederlo, lo spettacolo.
fatelo per voi.

ciò che non so dire

io questo faccio nella vita: comunico.
lo faccio come lavoro da più di quindici anni.
ma per istinto, per indole, per necessità vitale lo faccio da che ho memoria.
comunico con tutto quello che posso. il mezzo è il linguaggio. lo strumento immediato e istintivo, la voce. quello più razionale e meditato, la parola scritta.
io scrivo, scrivo, scrivo sempre, comunque, dovunque.
se fossi un uomo, forse scriverei anche sulla sabbia. o sulle pareti.
in questi anni ho scritto di tutto, in ogni modo, per chiunque.
ho scritto per gli editori e per gli scrittori, per gli attori e per il loro pubblico, per i preti e per gli sposi. i biglietti d’auguri della mia famiglia li scrivo tutti io, tranne quelli che arrivano a me. ho scritto per far conoscere qualcosa o qualcuno e anche per nasconderlo. ho scritto per raccontare una storia; o perché la storia, così com’era accaduta, venisse dimenticata. ho scritto cose belle che hanno fatto del bene e mi hanno fatto diventare una persona migliore. ho scritto cose che ho dimenticato di aver scritto per non rischiare di invischiarmi troppo con il loro contenuto.
ho scritto perché dovevo e, fortunatamente, quasi sempre l’ho fatto volentieri, a volte addirittura con entusiasmo. di tutto ciò che ho scritto, conservo emozioni e ricordi piacevoli.
perché le parole scritte sono nate da comunicazioni che sono prima avvenute con i linguaggi della vita, quella d’istinto, quotidiana, dei piccoli momenti che diventano grandi nell’intimità della memoria e del ricordo ad anni di distanza.
io comunico perché sono viva. e sono viva solo se riesco a comunicare.
ascolto, parlo, racconto, sento, condivido, raccolgo e medito.
solo così ho il senso di esistere.
ma ci sono momenti in cui le parole non escono e mi rendo conto che ci sono cose che non so dire e che non riesco nemmeno a scrivere. e che c’è una parte di vita che mi sfugge. o che non riesco ad affrontare.
come quando mia figlia vede scorrere nell’indifferenza del flusso televisivo le immagini delle carestie in Somalia e in Corno d’Africa. e di fronte a quel fiume di sofferenza e di parole che per lei non hanno alcun significato vivo, ma che raccontano di morte vera, vicina, senza senso, mi chiede:

«mamma, i bimbi hanno fame. anche loro pappa. no? perché no?»

 

I segreti della cacca

ci risiamo.
è tornata la moda di farsi infilare un tubo nel culo per vedere quanta merda ci siamo tenuti dentro. il nome tecnico è pulizia del colon o idro-colon-terapia. ma la verità è quella: c’è uno che ha sprecato anni a studiare medicina per poi ritrovarsi a sturare buchi di culo a sconosciuti che non hanno mai nemmeno letto La giuliva siringa di Piero Lorenzoni (Milano, 1969).
Habemus clysterium solitarium: questo l’inno di uomini e donne del XVII secolo, che ben sapevano che il clistere è un piacere che va consumato in religiosa solitudine o in complice compagnia.
ma la spedalizzazione ci attanaglia, almeno quanto l’ossessione della connettività costante.
mai come ora, due cose ci riempiono l’animo di meraviglia: quella cosa che sempre è tutta intorno a te e la materia umorale dentro di te. meglio è che Kant non possa più dire la sua in merito.

dopo ciò che è tutto intorno a noi, siamo ossessionati da ciò che abbiamo dentro di noi. ma molto dentro, là dove sarebbe bene non andare a ficcare il naso per ovvie e sensate ragioni. e invece ci si va, con la testa pesante e il portafogli un bel po’ più leggero.
perché andare a rimestare nella merda ci è familiare, rassicurante.
se poi a farlo è un medico, c’è anche una spiegazione scientifica.
in fondo, ogni mamma conosce benissimo l’impegno e la dedizione nel tener conto e analizzare con perizia archeologica le defecazioni delle proprie creature e offrirne report dettagliati e possibilmente corredati di reperti freschi al medico di fiducia.
e che anziano sarebbe quello che non passa la giornata a narrare il suo difficile quanto miracoloso rapporto col wc?
l’amore per la cacca dà sempre i suoi frutti.
ma diventa preoccupante quando questa pratica, di per sé assolutamente necessaria alla vita, si tramuta in qualcos’altro. ad esempio, nell’ossessione della purificazione, che dev’essere esterna come interna, nell’inutile e fallimentare tentativo di eliminare dal proprio corpo ogni traccia di umanità, ivi compresi i naturali effluvi del tenero intestino.
e il pericolo è lì, dietro l’angolo della clinica linda e pinta, tutta profumata di cloruro di follia.
è quella in cui ti sdrai e ti rilassi e uno con l’appeal di un medico open mind ti legge la cacca, raccontandoti che soffri di sindrome di abbandono, di turbe affettive, di un negativo rapporto con la tua prozia morta prima di rivelarti i suoi numeri al lotto, di disturbi dell’ego che ti fanno sentire superiore al tuo capo, di una sessualità che ti frustra perché non hai mai esplorato i meravigliosi sentieri dell’analità. e te li legge così, con leggerezza, tutti questi segreti. te li legge nella cacca, svelandoli al mondo, portandoli alla luce, come un archeologo che riporti alla luce lo scheletro dell’amante a fianco di quello della regina.
c’è un motivo per il quale la cacca rimane nascosta al mondo. e c’è un motivo per cui questo mistero insondabile non debba essere violato con dei sondini. attenti a voi, sciagurati! fatti non foste a guardar dentro i tubi, ma per usar clisteri e un po’ di decenza.

l’orrore di una medicina che non cura

Ho letto su INternazionale un articolo vergognoso.
Così, ho scritto al suo direttore. Vi dirò se otterrò risposta.

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Gentile Direttore,

da fedele abbonata, da attenta lettrice, da persona adulta, da madre, da donna e da cittadina le scrivo.
Con orrore crescente ho letto l’articolo contenuto nello scorso numero 924 firmato da Michael Specter e titolato “Resistenti al vaccino”.
Affermazioni come

diversi studi dimostrano che i vaccini contro il morbillo sono sicuri e non hanno nessun rapporto con l’autismo

mi turbano profondamente, soprattutto se presentati senza un contradditorio, senza una fonte di riferimento (dato che i dati della Food& Drug Adm. dimostrano esattamente il contrario) e gettati a fondamenta di una tesi più simile a una chiacchiera da bar che a una ricerca accurata. Su che criterio avete selezionato la fonte? Forse che il New Yorker vi sia stato sufficiente?

Gentile Direttore, a un leghista che le cita l’aggettivo “padano” nel marchio del Grana come fondamento socio-culturale dell’esistenza della Padania, cosa risponde?
Come le è dunque possibile con leggerezza permettere la pubblicazione di un articolo che accusa chi sceglie di non vaccinarsi un pericolo per la società, una mina vagante, un pessimo cittadino?
Ci sono stati anni in cui denunciare un vicino di casa di differente religione o colpevole di amare persone del suo stesso sesso era atto di patriottismo. O anche: è solo recente conquista il riconoscimento che la violenza sulla propria compagna sia una violenza alla persona, come tale perseguibile e non, com’è stato da sempre, una sorta di diritto naturale del maschio sulla donna di sua proprietà.
Negare i numeri delle vittime delle vaccinazioni di legge è negare la nostra storia civile, di cittadini e di utenti di una sanità (nazionale e mondiale) controllata -come tanti altri settori- da interessi economici prima che dalla tutela della salute pubblica. Affermare altresì che un virus dichiarato pandemico

potrebbe dissolversi, come pare sia avvenuto all’H1N1

poi, significa non curarsi di un macchina del terrore sanitario globale che include inutili quanto redditizie iperproduzioni farmaceutiche, razzismo alimentare e compattamento politico nazionale.

Gentile Direttore, mi piacerebbe presentarle mia nipote, una bimba adorabile, diventata autistica dopo una febbre da post-vaccinazione ordinaria anti-morbillo che le ha dato terribili effetti collaterali. O vorrei che fosse stato al mio fianco di fronte al mio pediatra, formatosi ai corsi di aggiornamento finanziati dalla grandi farmaceutiche, convinto sostenitore dei benefici del vaccino.
La ragione addotta più frequentemente alla sicurezza dei vaccini è che non hanno sintomi. Ma mi dica, gentile Direttore, quanto definerebbe sicuro un qualunque farmaco che le provocasse una reazione con febbre oltre i 40°?
Provi a segnalarlo al suo dottore. E provi a sentirsi dire che “è una reazione normale”, gentile Direttore, e che è lei ad avere qualcosa che non va.
Provi a recarsi all’ASL e chiedere vaccini singoli, non depotenziati al mercurio, a rifiutare l’esavalente e a chiedere di esercitare il proprio diritto -in qualità di cittadino italiano- al dissenso informato. La prego, gentile Direttore, provi.
Io l’ho fatto.
E le dico che non è facile. Che i luoghi comuni, come quelli propagandati da questo articolo superficiale e fazioso, sono così lenti da sradicare che occorre l’impegno in prima linea di tutti noi. E che di certo non aiuta nessuno un articolo fondato sul paragone tra croste secche di vacca vaiolosa e moderni ritrovati scientifici contro ogni tipo di virus; che esiste, che verrà e che, in ogni caso, sarà pubblicizzato a dovere per garantire un buon ritorno d’immagine e un profitto a molti, moltissimi zeri.
Il dissenso informato è una conquista di tutti i cittadini italiani, gentile Direttore, e non solo delle regioni da voi citate.
Ma il dissenso informato prevede che esista un’informazione approfondita sui rischi di ogni trattamento, anche se in altre epoche e su altri morbi ormai eradicati ha ottenuto validi risultati su larga scala.

Gentile Direttore, vorrei che lei tenesse impegno all’elevata qualità da sempre perseguita dal suo periodico, offrendo nei numeri a venire un approfondimento al discorso delle vaccinazioni, con cifre e indagini attendibili, in un contradditorio tra sostenitori e critici.
Lo deve ai suoi lettori e lo deve a me, madre di due figli con una rara malattia genetica per cui ogni stato febbrile diventa un pericolo dalle conseguenze imprevedibili.
Ha mai provato, gentile Direttore, a sentirsi definire “un pessimo padre” perché si rifiuta di sacrificare i suoi figli nel roveto ardente dei loghi comuni?

Con rispettoso affetto.

tipi da teatro [ovvero: c’è solo un Grande davvero grande ]

e così ieri sera sono andata a vedere il concerto di Ludovico Einaudi al Teatro Grande.
tuffo al cuore a rimetter piede in questo teatro. tanta nostalgia di quando era qui e solo qui che si faceva la prosa, e le compagnie che arrivavano erano stupite di non doversi micrifonare perché qui l’acustica è così perfetta che, a respirare troppo forte quando amleto ti ha ucciso, il pubblico capisce che bleffi e non sei morto.
e insomma, ieri sera concerto commovente. Ludovico Einaudi che sembra uscito da un cocktail con una parte di Seteve Jobs e due del maestro Teomondo Scrofalo. generosissimo, delicatissimo, intimissimo.
la sala sospesa sotto le sue dita. quando tocca i tasti è un’emozione, quando li lascia un dolore sottile.
in mezzo, pensieri che fluiscono nel piacere della musica e alla fine tanta pace. tre bis. una generosità come poche. dice tre parole dopo le prime due sequenze da Nightbook che gli costano una fatica immensa. per il resto, comunica solo con la musica.

 

che posto strano, il teatro.
soprattutto quando, come me, non sei mai stata ricca e l’hai sempre vissuto dai posti dei poveri. e dai piani alti, il teatro è il posto dove il grande genio incontra i massimi cafoni.
e la verità è che, anche quando cresci e provi a cambiar posto, è sempre così. e ieri sera ho ritrovato tutti quei personaggi da teatro che mi è parso non siano cambiati di una virgola. e che sono più o meno questi:

la signora che tossisce: te la danno insieme all’abbonamento e c’è sempre il sospetto che la direzione di sala ne recluti un tot, perché coprono l’intero teatro, disposte regolarmente in modo che ogni spettatore abbia la sua signora che tossisce abbastanza vicino. quando la signora che tossisce ha impegni o muore (di tisi, si suppone) viene sostituita dall’uomo col catarro.

la ragazza dei braccialetti: parente strettissima della signora di cui sopra, forse nipote, viene a teatro pensando di andara a un happy hour e tentenna il braccio come se dovesse attirare l’attenzione dell’attore/musicista, forse scambiandolo per il barman (sarà lo smoking, sarà che ha fumato lei).

la signora delle caramelle: infida e perversa, passa al bar davanti al teatro appena prima dell’inizio dello spettacolo e compra un pacchetto di caramelle incartate accuratamente a tripla mandata una per una con una speciale carta rumorosissima che produce gli stessi decibel di una pineta zeppa di grilli. appena le luci si spengono, attende il momento opportuno, in cui il pathos è alto e il silenzio completo per estrarre il famigerato pacchetto e cominciare a scartare, una per una, tutte le caramelle.

lo spettatore “dai, cazzo!”: diviso tar le categorie “astioso con il vicino di posto” e  “ansioso di andarsene”, lo senti rimuginare per tutta sera e con intonazioni modulate su un crescendo di aggressività “dai, cazzo!”

 l’uomo che applaude: affetto da una rarissima malattia (più o meno, uno per spettacolo) è ansiosissimo di iniziare ad applaudire, tanto che spesso lo fa fuori luogo battendo una sola volta le mani e poi, accortosi di essere l’unico, desiste imbarazzato. l’ansia e la vergogna rischiano ogni volta di ucciderlo.

ieri sera ho fatto conoscenza con un’altro tipo, rarissimo, che credevo fosse solo leggenda e che potremmo definire così:
l’uomo che si gratta troppo: forse allergico alle stoffe delle poltrone, alla moquette dei pavimenti, ai tarli delle assi del palcoscenico o con una patologia del derma che, in seguito alle temperature tropicali che si sviluppano in sala nello svolgersi della rappresentazione, scatena in lui orticarie a cui può portare sollievo solo grattandosi in continuazione. l’uomo che si gratta, proprio in virtù di queste patologie, non ha una pelle normale: la sua sembra un mix tra sky e cartavetro grana 3. l’uomo che si gratta lo fa in qualunque modo, con qualunque oggetto sia in suo possesso. quello di ieri seduto a fianco a me si grattava col biglietto. e si è grattato tutto, con un’accuratezza che mai avrei immaginato: prima la barba, poi la fronte, poi la nuca, e poi giù giù fino a darsi una bella raspata ai gabbasisi.

che dire?
questo è il teatro in cui io mi sono innamorata del Teatro. e quando ti succede così è un casino: è come conoscere l’uomo della tua vita dopo 6 mesi di personal trainer e in un completo di armani. è quasi impossibile che possa essere perfetto così, per tutto il tempo che l’amerai. a se è vero che l’amore è cieco, anche a teatro, la cafoneria ci sente benissimo.

mr. simpatia / mr.s empatia

in questo periodo, mi sono data all’erosione dell’empatia. non nel senso che la pratico, almeno non più di qualsiasi altra persona nelle mie stesse condizioni di vita. più nel senso che cerco di capire esattamente com’è che inizia, come succede, da che punto in poi è come se ci fosse un grado zero da cui l’empatia diventa minima, insignificante, ininfluente.
e mentre penso a questa cosa, ogni tanto mi capitano serate come quella di ieri.
ieri, 10 settembre, sono stata in un posto very very very milanese, off course, che si chiama “carroponte” perché è un locale sotto un carroponte dismesso delle industrie marcegaglia a milano.
quidem nomen.
più o meno.

insomma, ieri sera sono stata al concerto di Fabri Fibra, all’anagrafe Fabrizio Tarducci, per gran parte del web Fabrizio Fibrazio.
la prima volta che l’ho visto su un palco era l’inverno del 2007. con il pezzo “applausi per Fibra” aveva fatto successo e iniziato a vendere di bestia, MTV l’aveva traghettato nell’olimpo dei mercati che vendono (teens e dintorni), era ufficialmente un reietto del mondo che l’aveva generato, un venduto, uno che aveva perso l’ambizione per il primo assegno succoso.
la prima volta che l’ho visto su un palco ci stava con suo fratello e un dj. passava da una quinta all’altra guardando per terra, con quel fare tipico dei rapper che si concentrano sulle rime per non sbagliare e cercano di non pensare che quando le avevano scritte, quelle rime, erano incazzati con ciò che anche quel palco rappresenta.
ma è così che succede.
ogni rivoluzione, per piccola o grande che sia, prima o poi deve fare i conti con la realtà.
nemmeno garibaldi avrebbe voluto stare su un piedistallo.
la prima volta che ho visto Fibra su un palco mi è sembrato esausto, fattissimo, un po’ triste.

per il concerto di ieri mi sono preparata a dovere.
una settimana di dieta. look che mai avrei osato per un’altra occasione.
sono perfino arrivata con un’ora di anticipo.
non ci giro intorno: mi sono molto divertita. quello che c’era sul palco era uno show divertente, entusiasmante, energico, il più bel live di rap italiano che abbia visto finora.
però non ero preparata a una cosa, che in effetti mi ha ributtato in mezzo alla questione dell’empatia che viene erosa senza che il comune senso della decenza ne sia minimamente intaccato. il fatto è che al concerto di Fabri Fibra c’erano un sacco di bambini. e quando dico bambini, intendo davvero bambini: dai due anni in su. e quando dico un sacco, dico che sembrava che avessero venduto i biglietti a un grest.
e insomma, come succede che Fibra è diventato roba da famiglie?
o che le famiglie sono diventata roba da Fibra?

e allora oggi questo post lo scrivo perché voglio ricordarmi e ricordare perché ho iniziato ad ascoltare le sue rime. perché nella volgarità misogina portata alle estreme conseguenze ci trovo un po’ di poesia, come quella delle memorie delle puttane che non si pentono o anche i libri dei cattivissimi della generazione beat o quelli degli amici lavoratori onesti/scrittori pulp che raccontano i retroscena delle loro giornate con la crudezza di una frattaglia ancora sanguinolenta.
ne elenco qui alcune, perché anche se è vero che [cito] prima col rap non faceva un granché e adesso col rap ci ha comprato il parquet …a me quel Fibra là mi piaceva, più grezzo che ironico, più stronzo che saggio.

ed ecco quindi alcuni versi dall’immortale canzoniere del Tarducci:

a scuola ho sempre fatto scena muta perché pensavo: chissà la prof come lo suca!
ho comprato un tubo di baci perugina. il biglietto interno diceva: leccherai una vagina.
perché ho leccato le fighe più sozze, quelle che profumano di cozze.
come paola barale in cerca di un contratto, in giro a fare orge con lo sguardo sempre sfatto. vorresti essere un divo? io non t’invidio.
alcolico al livello non sono tuo fratello: io faccio il rap solo per dare via un po’ più di uccello. capisci? questo è il bello.
se tu sei un divo, allora mi domando: io sono morto o sono vivo?
resta nell’ombra della mia sigla: doppia effe come fregna e figa
andiamo in bagno e ci facciamo una riga, così cambiamo pelle come i litfiba. e visto che ci siamo ti lecco la figa, ma cadi a terra e ti rompi la tibia.

freddo, carezze e comodo

è proprio in serate come questa che mi succede.
mi viene nostalgia dell’inverno.
un giorno almeno, d’estate, mi succede.
e viceversa.
questa sera dell’inverno mi manca una cosa nuova, cioè una cosa che mi manca per la prima volta.
già, perché quello che mi manca sempre, a questo punto del caldo, sono
il freddo
la neve
la malinconia della natura in letargo
l’intrinseca bellezza degli alberi senza foglie
la mollezza dei giorni corti
la gratitudine per il peso del cappotto
il calore rassicurante dei cibi appena sfornati
i passi svelti per raggiungere la porta
i profumi intrappolati nelle sciarpe
le serate a teatro
la voglia di accendere il camino
la poca voglia di uscire

e quest’anno, per la prima volta, mi accorgo che mi manca un’altra cosa.
mai l’avrei immaginato.
mi mancano i serial.