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Occuparsi della violenza: non è facile, ma è giusto


Lo sapete già se siete su Facebook e avete amici coinvolti nei dibattiti sul genere, se siete iscritti alla mailing list della Consigliera di Parità della Provincia di Brescia, se frequentate blog che trattano il tema della violenza come Un altro genere di comunicazione, Rete delle donne o Se non ora quando, ne siete a conoscenza se simpatizzate per la Casa delle Donne onlus, se seguite su twitter le community che si battono per i diritti civili, se frequentate amicizie in cui il dibattito sui conflitti di genere è un tema appassionante che vale la pena sollevare perché include un largo ventaglio di diritti civili sempre più a rischio di essere cancellati.

Non ne sapete niente se siete una persona che si informa solo dalla televisione, se ascoltate stazioni radio pop dove i programmi di intrattenimento oggi lanciano temi come “saremo più o meno felici con l’ora legale”, se non avete alcuna socialità nel virtuale, se avete prenotato l’anteprima per il prossimo cinepanettone, se sentenziate ad alta voce e in pubblica piazza che Belen è una pessima madre (e che ve l’aspettavate anche prima), se liquidate le donne in prima linea affermando ad alta voce che perdono in femminilità, se dite con convinzione che gli uomini vengono da marte e le donne da venere, se ascoltate Giovanardi con sollievo pensando che c’è chi la pensa come voi, se vi siete sposati senza fare accordi prematrimoniali perché tanto l’amore sistema tutto, se siete uomini sicuri che ci sono lavori fatti solo per voi e se siete donne convinte che spetti a voi tenervi stretto il vostro uomo.

Ma se state leggendo questo post, allora adesso lo sapete anche voi: o ggi è il 28 ottobre e oggi anche a Brescia si svolgerà l’iniziativa POSTO OCCUPATO. Se vi interessa l’inchiesta, cliccate sul link e andrete al sito in cui ci sono notizie, fotografie e materiali di approfondimento. Se invece vi interessa partecipare, allora dovete fare così:

oggi occupate un posto. Read More

Royal freak


La mia seconda gravidanza l’ho passata quasi interamente in ospedale. Stavo nel reparto delle mamme a rischio e, rispetto alle mie compagne, ero una di quelle che stava meglio. Ho visto cose, in sei mesi, che nessuna donna dovrebbe sapere prima o mentre decide di avere un figlio. E nonostante questo, continuo a trovarci una sorta di misterioso fascino e anche di affascinante e innegabile gioia quando una donna decide consapevolmente di affrontare l’esperienza della maternità.
Gli svedesi hanno un detto: i bambini sono come le puzze, a ciascuno piacciono solo le sue. A me i bambini piacciono; ma gli svedesi ci vedono giusto. E nonostante sia solidale con le altre mamme e generalmente affettuosa coi bambini altrui, i miei mi bastano e mi avanzano.

Con questa premessa, ora dovrei scrivere che il delirio sui bambini reali mi lascia indifferente. Invece no. Queste settimane le sto vivendo molto male. So che la principessa inglese sta bene, quindi di certo non ha avuto quello che ho avuto io; né tanto meno qualcosa di orribile come quello che vedevo accadere intorno a me. So anche che ha atteso le doglie nel suo comodo letto e non in uno stanzone da sei, dove la privacy per le visite, anche d’urgenza, era una tenda oltre la quale ogni tanto sentivamo le ostetriche urlare “signora, mi sente? riesce a sentirmi? oddio, questa non si risveglia”. So che ha avuto il meglio e sono contenta per lei, che può permetterselo. Noi, della prima ginecologia, avevamo personale attento e sempre operoso, che si divideva per stare dietro a tutte noi, che quando partivamo per la sala parto non sapevamo mai se saremmo tornate, in quale stato e in quanti vivi.

La vicenda del royal baby e dell’asilo globale dei bambini reali mi turba per ben altre questioni. La prima è che la mia casella mail è infestata di comunicati stampa come questi:

A Lecce giovedì 25 luglio alle ore 18 in onore del Royal Baby saranno piantati un ulivo, una vite ed un leccio. Con “Thank_UK” gli studenti del “Galilei – Costa” e la Provincia di Lecce ringraziano il popolo britannico per il crescente interesse nel Salento e invitano tutti a partecipare.

Ora. Capisco tutto, ma una scuola deve invitare tutta una città per un atto simbolico dedicato alla nascita dell’ennesimo bambino ricco e potente in un castello di rappresentanza? Non c’è nient’altro di meglio da celebrare, magari da ricordare insieme ai ragazzi, alle famiglie e alla città?
E questo tipo di comunicati non riesco nemmeno a paragonarli ad altri, che letteralmente mi bombardano da settimane. E che sono quelle dei siti di scommesse. Ve ne allego uno, tanto per farvi capire di cosa parlo: Read More

Dietro quella porta

«Le stava sempre attaccato. Il giorno in cui sono andati a prelevarlo, solo da quella mattina la polizia ha contato almeno 87 squilli. Era anche finito a mani in faccia con un paio di colleghi sul lavoro. E poi, i bambini di mezzo. Non so cosa gli è scattato, ma non c’era più modo di controllarlo». Non è un’intervista sul caso Iacovone, ma una conversazione tra me e una mia cara amica d’infanzia a proposito di suo fratello, ora in carcere per stalking. Siamo cresciuti insieme; eppure che uomo lui fosse in casa sua io non l’ho mai saputo. Ma sua sorella sì. E perfino lei ha faticato a credere che quella vena di possessività e gelosia potesse diventare tormento minaccioso. Certo, Gussago non è Ono San Pietro: un paesino di 994 anime in ValCamonica non sono certo i 17mila abitanti del paese da boom immobiliare alle porte della Franciacorta. Eppure. Dal più piccolo paese alla metropoli più affollata c’è sempre quella porta lì. Ci escono famiglie all’apparenza ordinarie, con buste della spesa e nani nel pannolone appesi al collo. Ma quando è chiusa, nel bel mezzo del sugo, a un certo punto da dentro è tutto un urlo, un esplodere di oggetti e parole e bambini strazianti e l’aria che sa di odio. Ci abbiamo convissuto tutti, con quella porta lì. Iacovone, dice sua moglie, era un buon padre per i suoi bambini. Anche il fratello della mia amica, dice lei. E le bravi madri a questo danno valore, sopportando in nome di un legame figlio-padre da preservare sacralmente. A costo della vita. Da madre, comprendo; ma da donna e cittadina ho il dovere di chiedermi se è davvero questo ciò che conta, perché ora il ragazzo che giocava con me in strada sta in galera e a Ono San Pietro c’è una madre senza più figli. La porta chiusa è un limite invalicabile per chi ci si chiude dentro. Erica Patti l’aiuto legale, psicologico e dei servizi sociali è uscita a cercarlo e l’ha trovato: quello che ha fatto secondo la legge è un esempio per molte donne. Così come il suo tentativo -eroico, a mio modesto parere- di mantenere sotto controllo la tensione e la follia. Ma nella guerra domestica che stermina mogli e figli occorre ormai fare la rivoluzione e sfondare le porte chiuse delle famiglie violente. Una sera la mia amica invece di alzare il volume della tv ha trovato una forza che non sapeva di avere, è entrata in casa di suo fratello e ha portato fuori i nipoti. Molte altre volte li ha sottratti all’odio irrazionale dei due adulti impegnati ad annientarsi reciprocamente. L’ha fatto per prevenire altra violenza; e perché la visione dell’odio per i bambini non diventasse né abitudine né educazione. Il diritto ad essere liberi in casa propria non è in discussione; ma la libertà non include la violenza vessatoria, fisica, omicida. Io non credo che basti essere un buon padre per essere un uomo intoccabile. E questo nella propria casa, nel proprio quartiere, nel proprio posto di lavoro e, in definitiva, nella propria comunità. Se stasera lo sentite di nuovo, quello che succede dietro la porta chiusa, ascoltatelo bene invece di ignorarlo. Non abituatevi mai, bussate e chiedete: possiamo portar via i bambini? Almeno finché non tornate ad essere persone.

[questo articolo è comparso sul blog del CorSera Brescia e lo potete leggere qui]

L’orrore normale

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Sto conducendo in questi giorni un’inchiesta sugli uomini violenti che finiscono per trasformarsi in carcerieri, torturatori e addirittura assassini. Il pretesto è un caso VIP: quello di Pistorius, atleta di fama mondiale, uomo di grande ambizione e determinazione in grado di abbattere la barriera che separa sportivamente i sani dai mutilati, ma che nel privato era noto per essere un compagno violento e irascibile.
Nel condurre ricerche sul femminicidio, come al solito, mi sono imbattuta nel dipanarsi graduale della violenza. Il femminicidio è l’ultimo atto, quello in cui la protagonista muore. Ma prima c’è la sua lunga e dolorosa storia.
Io che per mestiere nella mia vita comunico, quando affronto questo tema mi sento in dovere ogni volta di richiamare quella che reputo la verità più dolorosa ma utile: la violenza è quotidiana e spesso invisibile, nascosta dalla banalità e dall’ordinarietà, da un aspetto mite, dall’ammonimento costante a non insinuare il dito o il dubbio sulle altrui relazioni.

Esiste un sito che si chiama In quanto donna.
Lo cura una donna, Emanuela Valente, che ha iniziato negli anni a raccogliere i nomi e i volti di chi ha ucciso (uomini) e di chi è stata uccisa (donne, spesso anche figlie).
Scorrendo i ritratti degli assassini la cosa più sconcertante è la loro normalità.
Sotto a facce che sono quelle di un padre, di un panettiere, di un postino, di un dottore ci sono didascalie raccapriccianti:
– Luigi Faccetti, 24 anni. Massacra con 14 coltellate la fidanzata, che si salva, e viene condannato a 8 anni. Dopo 10 mesi gli vengono concessi i domiciliari, fa sequestrare l’ex fidanzata e la uccide con 66 o 80 coltellate, di cui 20 al cuore. Condannato a 30 anni con rito abbreviato, pena confermata in appello il 31 gennaio 2013.
– Ruggero Jucker detto Poppy, 36 anni, rampollo della Milano bene, Re della zuppa. Fa a pezzi la fidanzata con un coltello da sushi e lancia i pezzi in giardino. Condannato a 30 anni in primo grado, pena patteggiata in appello e scesa a 16 poi ulteriormente ridotta a 13. Ha già usufruito di 720 giorni di libertà come permessi premio e avrebbe dovuto essere libero da giugno 2013, ma la scarcerazione è stata anticipata per buona condotta (13 febbraio 2013).
– Maurizio Iori, 49 anni, primario oculista. Accusato di aver avvelenato l’amante e la figlioletta di due anni, condannato all’ergastolo e 2 anni di isolamento diurno (Sentenza 18 gennaio 2013).
– Antonio Giannandrea, 18 anni, studente. Picchia, soffoca e sgozza la fidanzata con un coltello da cucina. Poi getta il corpo in un burrone e tenta di depistare le indagini. Chiesti 16 anni con rito abbreviato.


Dentro questo sito ci sono anche loro:
– Desiree Piovanelli, 14 anni, studentessa. Accoltellata e morta dissanguata dopo un’ora e mezzo di agonia, con i piedi legati con un nastro da pacchi, dal cosiddetto “branco di Leno”: 4 amici di infanzia, di cui solo uno maggiorenne.
– Patrizia Maccarini, 43 anni, operaia. Uccisa con una coltellata al cuore dall’ex fidanzato.
– Hina Saleem, 20 anni, lavorava in una pizzeria. Sgozzata e seppellita nell’orto dal padre, due cognati e uno zio.
– Francesca Alleruzzo, 44 anni, mamma di 4 figlie, maestra. Uccisa a fucilate dall’ex che ha ucciso anche il nuovo compagno di lei, Vito Macadino, e si è poi recato in casa dove ha ucciso una delle figlie, Chiara, 19 anni e il suo ragazzo Domenico Tortorici.
– Monia Del Pero, 19 anni. Strangolata, denudata, messa in un sacco della spazzatura e nascosta in una conduttura delle acque dall’ex fidanzato.
– Moira Squaratti, 26 anni, assistente in uno studio dentistico e volontaria Avis. Picchiata, strangolata e uccisa con 15 coltellate dal fidanzato.

Ieri in piazza abbiamo ballato anche per loro. Scacciando, con la gioia della danza, la terribile sensazione che l’anno che sta arrivando non sarà migliore di quello passato.
Ancora per troppe donne come noi.

A. Con. Per. L’importante è fare l’amore.

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La mia nonna era una donna d’altri tempi. Tra lei e me c’è un secolo breve, due guerre, nove gravidanze, sette figli diventati adulti. Una parte della mia formazione in fatto di relazioni la devo a lei. A lei e al Cioè, ché quando io mi sono improvvisamente accorta che esistevano i maschi e abitavano il mio stesso mondo e in fondo non erano poi così male -anche se bastava lanciargli una palla perché si mettessero a correre come dei cani- non c’era internet. E di certe cose ce ne metti un bel po’ prima di renderti conto che puoi parlarne con mamma realizzando che è una donna anche lei e, in qualche modo, c’è già passata.

Dopo nove gravidanze mia nonna aveva da insegnarne parecchie sulle conseguenze dell’amore. E, più precisamente, sulle conseguenze dirette del fare all’amore.
Che ai suoi tempi era una cosa seria e noiosissima. Fare all’amore a qualcuno significava corteggiarlo formalmente. Cioè passare le serate mano nella mano seduti in salotto sotto lo sguardo attento e inquisitore di parenti e animali domestici. Fare all’amore, ai tempi della mia nonna, valeva più o meno come l’abitudine a farsi compagnia. Read More

Le bugie hanno le gambe strette

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Proprio adesso, mentre sto scrivendo, il cast di Un tram che si chiama desiderio diretto da Antonio Latella sta per salire sul palco del teatro Sociale per l’ultima replica in città.
Non state qui a leggere me, andate a vederlo: le parole scritte, perfino su un blog, rimangono. Ma il teatro… ah, quello non torna mai. Ogni volta è nuova e irripetibile. E questo spettacolo è imperdibile.
Io l’ho visto giovedì. E ieri mi sono goduta l’appuntamento all’Eden prima con Laura Marinoni e poi con Marlon Brando.
[Sì, sì, lo so: il film è tutto bello e sono tutti bravi. Ma io sono una donna e di fronte a uno come Brando, così com’era in quel film lì, non posso che sospirare: non ne fanno più di uomini così]

Laura Marinoni in Un tram che si chiama desiderio, regia di Antonio Latella (ph. B. Giolivo)

A teatro, Laura Marinoni è una bravissima Blanche Dubois. Vicino a lei, Vinicio Marchioni è uno Stanley barbaro e incolto. E la violenza domina sulla scena. Ma in un modo diverso da come l’aveva pensata l’autore Tennessee Williams. Lui voleva che Blanche fosse una donna incompresa: da un lato, prigioniera di un mondo romantico e fantasioso, in cui lei era una principessa aristocratica destinata all’amore di un raffinato e sensibile poeta; dall’altro, una femmina soggetta ai suoi più bassi istinti, che non possiede freni nel concedersi a ogni sconosciuto pur di confermare ogni volta il suo unico potere: la seduzione, perfino su giovanissimi uomini, anche minorenni.
Nella mente dell’autore vive il dramma di una sorella amatissima, lobotomizzata per volere della madre, fanatica religiosa incapace di gestire la malattia mentale della figlia schizofrenica e le sue incontrollabili esplosioni erotiche. Correva l’anno 1938 ma il giovane Tennessee restò per sempre segnato da quell’evento. Nella sua testa (e poi in ogni suo personaggio femminile) è rimasta la percezione di un sottofondo di follia che pervade il femminile.
Blanche è solo una delle tante donne pazze di Williams, la cui follia è direttamente connessa alla manifestazione erotica del proprio desiderio.
Ieri la Marinoni spiegava come Latella non se la sia sentita di far rivivere a Blanche, ancora una volta, il tragico destino riservatale dal suo autore. Per lui, la manifestazione del suo desiderio è legittima e non può essere condannata.
Per questo, fin dalle prime battute, le affianca un uomo che la comprende e la capisce, un dottore, un medico, un uomo gentile, che in parte è l’autore, in parte è il regista, in parte è l’uomo da cui lei spera -disperatamente spera- di essere perdonata. E salvata.
Ma davvero una donna deve essere salvata dal proprio desiderio? Read More

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Leggere Ian Fleming in lingua originale. Migliorare lo spagnolo. Iniziare a studiare una nuova lingua. Diventare una di quelle che si infilano le scarpe ed escono a correre fuori, come i caprioli. Scoprire almeno cinque posti nuovi che non ho mai visitato nella provincia di Brescia. Eliminare almeno un altro animale dal mio menù. Imparare a cucinare almeno una verdura per stagione che non ho mai mangiato. Cercare di sapere da dove arrivano le cose nella mia vita e come ci arrivano. Ogni tanto, lasciar perdere. Dire più spesso “ti voglio bene”. Fare qualcosa di folle. Scrivere una lettera d’amore con inchiostro su carta pergamena. Impegnarmi ogni giorno almeno un po’. Ogni tanto, staccare totalmente. Dimenticare almeno un torto per cui ancora conservo rancore. Dire più spesso di no. Applicare con disciplina il rispetto per l’intelligenza umana, mia e altrui. Imparare a fare il cioccolato. Contare fino a tre prima di rispondere. Inghiottire i commenti cattivi senza pronunciarli. Discutere più spesso. Vedere gli amici cari almeno una volta, anche se sono lontani. Ricercare il silenzio. Ringraziare apertamente qualcuno per aver reso la mia vita più bella. Custodire qualcosa di sacro. Chiudere almeno un rapporto negativo. Fare la corte a un uomo speciale.
Valorizzare i compromessi. Lasciarmi corteggiare con spensieratezza. Passeggiare per la mia città senza ombrello in una sera di pioggia. Arrivare a vedere almeno un’alba senza aver chiuso occhio. Dire a ogni amica cosa trovo di bello e speciale in lei. Annoiarmi. Fare un viaggio con ognuno dei miei figli. Abbracciare più spesso e più stretto. Farmi un nuovo tatuaggio. Eliminare lo zucchero bianco. Curare almeno una pianta nuova. Imparare almeno cinque parole in dialetto che non conosco. Farmi raccontare una fiaba antica. Crederci.

non chiamateci puttane

 

So che ormai è un’abitudine. So che è un’abitudine superficiale e cafona. Mi rendo conto che, anche, spesso la forma non implica direttamente la sostanza. Ma il fatto è che, nonostante queste attenuanti, per principio io non dò mai della puttana a una donna. Quando sono venuta ad abitare in Carmine, sono state le mie prime amiche. Loro e i kebabbari aperti 24/7 che con il loro “Ciao Nadia!” si passavano da bottega a bottega il segnale che stavo tornando a casa sana e salva per un’altra sera.
Mio padre non lo sapeva mica, ma mi ha dato un nome che è anche arabo.
E mi ha protetto così tante volte che nemmeno lui può saperlo.
Il fatto è che i nomi sono importanti. Soprattutto se usati come insulti.
Puttana deriva dal latino putta, fanciulla. Quindi, in effetti, dare della puttana a una donna non è nulla di diverso che chiamarla signorina.
Ma c’è che quando diamo della puttana a una donna vogliamo farle del male.
Per fortuna, solo verbalmente.

Le puttane, per come le conosco io, sono donne che in quella situazione ci si sono per lo più trovate. E per come le conoscono al pronto soccorso, in situazioni così nessuno di noi vorrebbe mai trovarcisi.
Le puttane che mi sono state vicine di casa, in Carmine, mi sono state vicine in molte altre situazioni.
Ricordo M., che mi teneva sempre il posto per l’automobile quando la sera tornavo.
«Così non sei lontana dal portone», mi diceva. «Prepara le chiavi prima e vai a passo svelto, mi raccomando».
Poi c’era L., che un giorno che mi ha visto tornare a casa con la febbre si è offerta di arrivare in farmacia a comprarmi le medicine, se non riuscivo da sola.
L. era specializzata: comprava le medicine a tutti i vecchietti della via.
Chissà, mi sono chiesta, forse aveva qualche malato in famiglia di cui si prendeva già cura.
Con C. ho scambiato confidenze sui fidanzati, sempre sbagliati, uno peggio dell’altro.
Lei li capiva alla prima occhiata, gli uomini. Mai fidarsi, era il suo motto.
Magari per quello si faceva pagare.
D’inverno, in giornate come questa, mi affacciavo: nella via ci stavano il pomeriggio, nella pelliccia.
Sapevamo tutti dove abitavano, sapevamo benissimo cosa facevano.
L’unica cosa che non sapevo era se M. la trans fosse o meno operata; ma mi ha tolto un giorno ogni dubbio indossando una tutina in spandex così attillata che, se quel pomeriggio fosse passato di lì un dottore, avrebbe potuto visitarla solo con gli occhi.
Non capisco mai le polemiche sulle puttane. O meglio: le capisco nell’ordine in cui sono persone con cui la maggior parte della gente non ha alcun rapporto. Se ce l’ha, prevede uno scambio di denaro. Come se fossero cose. A una puttana che intervistai per un’inchiesta, chiesi se era felice del suo lavoro. Lei mi disse di sì.
«Tu vendi la tua intelligenza ogni giorno. Io qualcosa di molto meno prezioso. E per molti più soldi.»
Se è il mestiere più vecchio del mondo, ci sarà un motivo: l’ho capito quel giorno.
A me le puttane piacciono. Se gli è stata data una scelta, allora sono spesso donne con una conoscenza della vita e dell’essere umano che in pochi possiedono.
Sono concrete, oneste, sveglie, intelligenti, discrete.
Ma la verità è che le puttane appartengono a quello strato della società che non esiste, che non si considera. Si usa il plurale, come ho fatto io, le si chiama “le puttane” e si fanno grandi discorsi sulla loro pelle. Ci si mettono dentro tutte: quelle giovani e quelle vecchissime, quelle che ci si sono trovate per disperazione e quelle che l’hanno scelto perché già che gli piaceva tanto valeva farne un mestiere, quelle che ci finiscono a furia di botte e quelle che non c’è bisogno di picchiarle perché il male fisico non riuscirebbe mai a cancellare l’annientamento psicologico di una donna che si è sempre sentita usata senza dignità.
Noi e le puttane abitiamo lo stesso pianeta. E abbiamo le stesse complicate differenze. Ma quando si parla di puttane, il qualunquismo e la generalizzazione sembrano avere il sopravvento.
È come se si volesse semplicemente cancellarle senza nemmeno prendersi prima la briga di conoscerle.
E si dimentica qual è l’unica vera condanna di chi fa questa vita: non poterne mai uscire.

Ricordo quello che è successo a C..
E la ricordo perché C. aveva la stessa età di mia cugina Monica, 43 anni.
E il giorno in cui C. mi disse che mollava tutto e che finalmente cambiava vita, mia cugina veniva ricoverata per problemi allo stomaco.
In realtà si è scoperto che lo stomaco non c’era più, che lei era tutta una metastasi e che l’unica cosa da fare era non avere rimpianti. Mia cugina non è più uscita. E otto mesi dopo, un giorno qualunque dopo il suo funerale, anche C. è tornata al suo posto.
Non ho avuto il coraggio di chiederle nulla, per settimane. Poi, un pomeriggio, me l’ha detto lei: aveva aperto un bar, molto lontano dalla città, dove era sicura che nessuno la conoscesse. E invece, qualcuno l’ha riconosciuta. Il bar è diventato il bar della puttana e chiunque ci faceva quello che voleva. Ha dovuto smettere per non avere troppi debiti da pagare. Ha avuto paura, più paura che in strada.
«Se sei una puttana, la gente non ti rispetta.»
«E se sei una persona?» ho chiesto io.
Se sei una persona il rispetto puoi pretenderlo. Forse che qualcuno dubita del fatto che le puttane siano persone?

Il cuore oltre la cattedra

Marco Cacciola e Angelo di Genio in The History Boys - prod.Teatridithalia, 2011

Mercoledì sera sono stata a vedere The History Boys.
Volevo vederlo tantissimo. E ho fatto bene.
Non ero la sola: il teatro era stracolmo. E quando dico stra, intendo davvero stra. Insomma: pienone. E qui ci sta un piccolo appello a chi acquista gli spettacoli del cartellone stagionale: uno spettacolo così avrebbe riempito la sala per due settimane. Perché limitarsi ad averlo qui solo per due date?Comunque, non è di questo che scriverò.
Di recensioni entusiaste è piena la carta e zeppo il web. Sono tutte vere. Perciò, se non c’eravate, rosicate pure: mai ci fu momento migliore di questo per invidiare chi l’ha visto.
Vi parlerò invece di una delle scene clou dello spettacolo. Non perché fosse un pilastro della storia, ma perché è una di quelle scene che ti piglia a mano salda per la gola e ti appende a un muro lì, come un salame. Una di quelle scene in cui ci siamo dentro tutti. E anche una di quelle che tocca un tasto troppo intimo per essere confessato apertamente. E però ha suonato eccome.
La scena era questa.

Alla fine degli esami di ammissione per il college, il professor Irwin viene stretto in un angolo dal suo allievo più spavaldo e dirompente nonché suo pupillo, Dakin. Il ragazzo ci prova spudoratamente col prof e tenta in tutti i modi di sedurlo.

Non voglio qui raccontarvi il contorno della vicenda perché svierebbe dal nocciolo della questione. La scena poco sopra descritta dura spannometricamente una decina di minuti. È un pressing seduttivo estenuante. Dakin usa la tecnica della confessione totale: dichiara i suoi intenti e accerchia la preda senza darle tregua.
E bisogna dirlo: ce l’ha fatta, almeno con noi. La scena un po’ ci ha arrapato e, quando è finita, non eravamo più gli stessi spettatori di prima.

E su, dai, confessatelo. Alzi la mano chi non ha mai sognato, almeno una volta nella sua vita scolastica, di chiudere all’angolo un prof, di ruolo o supplente che fosse, per il quale si perdeva in ore e ore di fantasie. In fondo, è una di quelle tappe che rientra appieno nel percorso di formazione: il cuore gettato al di là della cattedra.
Tra i miei ricordi, un professore d’arte (docente e artista: non avevo scampo!) delle medie, supplente, bello come un cristo alla Zeffirelli. Sospiravo, sognando che mi regalasse uno di quei disegni che gli vedevo fare di nascosto per una delle sue fidanzate durante le verifiche.

Ma il cuore oltre la cattedra è fatto per un sogno d’amore che deve necessariamente rimanere così: epico, romantico, intatto. Una verginità sentimentale da custodire gelosamente.
Abbiamo sospirato tutti al ricordo di quell’amore solo nostro che ci ha accompagnato fino alla laurea. E magari, qualche volta, anche oltre.

Un altro momento della scena: Prof le devo chiedere una cosa…

Ma i tempi sono cambiati, dicono gli amici che oggi, dietro quella cattedra, ci lavorano.
Una, per esempio, ha lunghi capelli ricci e rossi naturali e un seno prorompente. Insegna Leopardi che quando ti legge L’Infinito ti viene voglia di piantare una siepe sul davanzale della classe solo perché tu e lei possiate nascondervi dal mondo a parlare di poesia per sempre.
Un’altra è nuotatrice, con la pelle colore delle olive del sud e i lineamenti duri di quelli che sono scampati alle foibe. Quando comincia a raccontartela, la filosofia, capisci che senso ha e ti senti parte di questo continuo flusso di pensiero che scorre impetuoso attraverso la storia.
Se anche un tempo loro stesse amarono, oggi sono oggetto di attenzioni e fantasie dei loro allievi. Che sono, come tutti gli adolescenti, bellissimi e confusi; stelle fatte di sogni, energia e ormoni.
A differenza di ciò che avremmo fatto noi (cioè: assolutamente nulla), loro avanches come quelle di Dakin le fanno. Eccome se le fanno. Così sfacciate che, ancor prima di capire come rispondere, ti viene da chiederti dove le abbiano imparate.
La sessualizzazione è una tecnica di marketing molto efficace; e viene applicata sistematicamente con strategie ben definite fin da bambini. Così, all’età in cui bisognerebbe solo amare, gli animi mettono avanti i corpi. Consumare è una garanzia di piacere.
Le mie amiche mi raccontano quanto è difficile tener testa a ragazzi così. Un po’ perché il rispetto per gli insegnanti è riconosciuto diversamente tra prof uomini e prof donne. E poi perché quello dei ragazzi è un disperato bisogno di conferme; e il possesso (quanto meno sessuale) è l’unica dimostrazione evidente di interesse che riconoscono e valutano.
Ma le mie amiche, e anche io, crediamo che in questo debba esserci un valore educativo imprescindibile: il rifiuto deve essere categorico e inviolabile perché è l’adulto quello che deve salvaguardare il sentimento, che ne conosce il valore.

Nella commedia, il professor Irwin cede.
Nella vita anche conosco professori che hanno detto di sì. E perfino storie d’amore nate tra un banco e una cattedra che sono durate più del corso di studi.
La cronaca dimostra che è un puro caso se io conosco donne che dicono no e uomini che dicono sì. La realtà racconta che sono sempre di meno i docenti che rifiutano il sesso per preservare il sogno d’amore.
E questo, va detto senza morale, è un vero delitto passionale.