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Una domenica mattina

Domenica mattina dall’alto della mia città sento il rintocco dei campanili che si inseguono nel metronomo delle ore e delle messe.
E penso alle persone in fila, che varcano i portoni. E mi chiedo -come se lo chiedono loro – se forse questa è la mattina giusta, quella in cui troveranno le risposte che stanno cercando alle domande che non sanno farsi.

Domenica mattina dal terrazzo di casa mia sento il richiamo della sirena della fabbrica, che mi ricorda che, per me, il tempo di mio padre è il mio stesso tempo. E che chi dice che il lavoro è cambiato mente. Il lavoro è sempre lo stesso.E anche la dignità di chi lo affronta.
Ma il disprezzo, quello di chi non lo conosce, di chi non lo vive e perfino di chi l’ha vissuto e poi non più, di chi non sa o ha dimenticato sacrifici e sopportazione quello sì, quello è cambiato.
Ha parole nuove, vuote, sempre più lontane, che vestono di colori educati e ipocriti lo stesso identico odio.

Domenica mattina, nel fresco dell’aria carica di pioggia, dal mio letto sento il pianto di un bambino. E penso che vive qui, vicino a me. Forse la sua pelle ha toni nocciola o i suoi occhi sono più scuri e con un angolo più acuto dei miei. Stamattina l’ha svegliato una campana, o una sirena, oppure la fame, o il bisogno di amore.
Nel dormiveglia, il suo pianto è uguale a quello dei miei figli e a quello di tutti i bambini che qui, ora, in questa domenica mattina, nelle case della mia città si sono svegliati per gli stessi motivi. E mi rincuora sapere che dopo aver viaggiato, alla fine sono arrivati anche loro e siamo qui, insieme, ognuno con un letto nella sua parte di mondo. E che abbiamo pianti simili e bisogni simili e la stessa fame di amore e di vicinanza.
E credo che sia questa l’unica vera risposta che la città può darci in questa domenica mattina d’estate, mentre aspettiamo la pioggia.

Tetti di Brescia – ph. Massimo Bordoni

L’eugenetica del Gabibbo

Il mio treno rientra da Roma alle 21:55. Siamo al binario 7. Durante il viaggio, ho letto Ausmerzen, il testo che Marco Paolini ha pubblicato dopo l’omonimo spettacolo. Dentro ci racconta una storia atroce, che tutti conosciamo ma che non sappiamo nei dettagli. Ci racconta di eugenetica: quel sistema che unisce pensiero, scienza, politica e sociologia e che ha a che fare con la distinzione non solo delle razze, ma anche delle persone. Una categorizzazione tra degni e indegni, tra utili e inutili. Tra meritevoli e parassiti. Tra chi va aiutato e chi va eliminato. Il libro non è solo estremamente intenso e coinvolgente. È anche indispensabile per capire come alcune idee possano ciclicamente tornare a serpeggiare, di come la propaganda possa riuscire efficacemente a promuoverle al punto che diventano nostre, ci appartengono. E le applichiamo nelle nostre azioni quotidiane. O, meglio, molto più spesso, in ciò che non facciamo.

Non si è spettatori di colpe di altri, è un «viaggio allucinante» dentro noi stessi, con un bagaglio crescente di dubbi, di domande difficili, di analogie con altri fatti, altri uomini, con la quotidianità di ogni giorno.

da Simone Casetta - Fanno finta di non esserci (2011)

Un esempio su tutti.
Ieri sera torno da Roma con il treno delle 21:55.
Sul binario, cammino trascinando la valigia. Di fronte a me, una signora dalla pelle color dell’ebano. Ha un bambino legato sulla schiena che dorme tanto beato quanto spalmato. Una bella bimba con due codini le tiene la mano. La signora ha due bambini, una borsa, una valigia, un passeggino carico di cose. Ma ha anche altro: una sacca enorme, caricata allo stremo della capienza. Un uomo gliela allunga dal vagone. La borsa è troppo carica. Lui pensa di aver già fatto fin troppo. La borsa si rompe. Un bricco di latte condensato rotola sotto il treno. L’uomo se ne va. È corrucciato e scuote la testa. La signora ha due bambini, uno a spalle, una per mano, una borsa, una valigia, un passeggino carico di cose e una sacca rotta con il cibo sparpagliato per terra. Vicino a lei, i passeggeri scendono assonnati e indifferenti. Poco alla volta, svuotano il marciapiede.
Restiamo io e tre ragazzi, tutti con un piccolo trolley.
Vorrei chiederle come succede che sul mio stesso treno possiamo viaggiare io che mi sono fatta una festa della mamma senza bambini a Roma e lei che viaggia portandosi dietro 60 kg di latte. Non mi sembra il caso. Mi fermo invece a chiederle se ha bisogno di aiuto. Una domanda stupida: certo che ne ha bisogno.
Mi chiede se posso aiutarla a recuperare il bricco di latte caduto sotto il treno.
La situazione è davvero grave.

La questione non è il fumo in sé: è il fumo in me. E quando toccherà a noi ? […] Ciò su cui stiamo riflettendo sono elementi sottili, come sottile è la depersonalizzazione collettiva per cui diventa normale non reagire e farsi i fatti propri.

da Simone Casetta - Fanno finta di non esserci (2011)

In qualche modo, io e uno dei ragazzi che si è fermato (gli altri se ne sono andati: erano stanchi) siamo riusciti a compattare la sacca e caricarla sul passeggino. Ad aiutare la donna è arrivata una sua amica, in abito lungo e ciabatte. Ho caricato una borsa sulla spalla, ho preso la bimba per mano e ci siamo avviate alle scale.
La stazione di Brescia è piena di scale, come tutte le stazioni dei treni.
La civiltà di una città si misura anche da questo: la vita è fatta a scale, chi le sale e chi, anche volendo, non può.
Ma gli altri, quelli che non si fanno domande, cosa pensano? Forse, chissenefrega. Forse, non è un problema mio. Forse, se lo meritano.
A portar giù tutto quel peso non ce la potevamo fare. Abbiamo chiesto aiuto.
Giù dalle scale, anche il ragazzo che ci ha aiutato se n’è andato: suo padre gli ha detto che aveva fatto abbastanza. E poi fuori pioveva.

La scienza diede il proprio avvallo, la chiesa tacque, molti girarono lo sguardo altrove. Poi, fu troppo tardi.

Siamo arrivate sotto la scalinata più difficile, quella che porta all’uscita.
Che fortuna, ho pensato: c’è un ascensore per disabili.
Il campanello dice: suonare per chiamare il responsabile della stazione.
Suono.
Aspettiamo.
Suono.
Aspettiamo.
Suono.
Aspettiamo.

Aspettiamo.

Aspettiamo.

Chi aspetta, ha fiducia. Ma chi aspetta troppo finisce per disperare. Sono andata a chiedere aiuto. Un gruppo di ragazzi col cappello da alpini, un po’ a malavoglia, ci hanno fatto da facchini. Ho chiesto alle donne se ci fosse qualcuno che sarebbe venuto a prenderle. Mi hanno ringraziato moltissimo, ma non hanno risposto alla mia domanda. Ho salutato la bimba e mi sono avviata verso casa.
Prima dell’uscita, ho incrociato un poliziotto in divisa. Stava chiacchierando con una coppia di soldati in mimetica, un lui e una lei.
Gli ho detto del campanello che non chiama nessuno, né l’ascensore né il responsabile della stazione.
Dice che a quell’ora non c’è nessun responsabile in stazione. Dice anche che quel bellissimo ascensore cromato ThyssenKrupp non ha mai funzionato. Che è stata alla stazione di Brescia anche Striscia la Notizia. Eppure, nemmeno loro hanno fatto il miracolo.
«E se non ci riescono loro, di certo non possiamo farlo noi» dice.
Ah, ecco. Il Gabibbo.

da Simone Casetta - Fanno finta di non esserci (2011)

 

PS: Le fotografie di questo post sono tratte dal libro fotografico “Fanno finta di non esserci” fotografie di Simone Casetta con un testo di John Berger. Sono scatti di resti umani anatomici conservati nei sotterranei di un noto istituto ospedaliero della capitale. Sono resti anatomici, feti, parti di corpi che la medicina ha imbalsamato per scopi scientifici. Sono uomini senza nome, bambini gravemente deformati, corpi di grande interesse scientifico e nessun valore umano. Appartengono a un passato molto recente, qualcuno di loro potrebbe avere l’età di un parente a noi caro e ancora vicino. Per il fascismo, sono state vite utili solo per la medicina. E in questo stato, senza riconoscimento, senza nomi se non quelli della patologia che li ha afflitti mortalmente, riposano, dimenticate. Informazioni sul fotografo e sul libro le trovate qui.

SOFFRITTO AROMATICO

by La topa di città

Estate.
Tempo di caldo.
Riusciamo a capire che l’inverno è davvero finito quando le dita dei piedi riconquistano il loro meritato posto al sole. E’ il momento in cui è bello passeggiare per i vicoli della città vecchia la sera, quando gli irriducibili affollano i tavolini dei bar in piazza e stuzzicano ancora il menù dell’happy hour, della loro ora felice, che li ha accompagnati per tutto l’inverno e che non varia mai, incurante dell’assecondarsi delle stagioni. Ma l’estate offre un’ora felice alternativa ai nostalgici come me, che dopo l’inverno a far la spola tra quattro pareti e i funghi a gas hanno voglia dell’aria di città. E allora si affacciano alla porta del bar, salutano tutti i compagni sopravvissuti al grande freddo, si fanno un giro veloce e un brindisi tintinnante per poi sparpagliarsi in un immaginaria partita a nascondino.

Estate.
Tempo di sole fino a sera.
Arriva che non te ne accorgi. Se ne va che ancora il sonno non c’è e c’è invece l’emozione inaspettata e l’energia e la voglia di stare in giro. L’ora che precede il tramonto è la più piacevole. La giornata in ufficio è finita e, anche se domani si ricomincia, c’è aria da vacanza quotidiana. E allora via, tra i vicoli a passeggiare. Non si fa mica niente di male: si portano a spasso i tacchi, si fa prendere il fresco alle dita dei piedi, si svolazzano un po’ i capelli e soprattutto si ascolta la voce della città.

*

Estate.
Tempo di rifare l’aria della casa.
Dopo la calura del giorno, le finestre se ne stanno aperte sul corso. E le case che parevano addormentate nei mesi freddi si riscoprono intorpidite e con i loro occhi da serranda stropicciata. Se c’è un alito di vento, si agitano lievi le tende. Da qualche parte tintinna una campanella con un suono magico che prima era oriente e ormai è anche qui.

Estate.
Tempo di frutta rossa e pomodori maturi.
Chi si gode l’ora felice a spasso per i vicoli sente le televisioni e le radio nelle case. Si riconoscono le voci catastrofiste dei tiggì che danno allarmi quotidiani, oggi per il caldo, domani per i cani. Poi è il momento dei quiz con i loro interrogativi enciclopedici sul colore naturale del cavallo bianco di Napoleone prima che cadesse per sbaglio nell’acqua ossigenata. Ci sono i bambini che vociano e protestano per uscire ancora un po’. E poi i profumi che ti rapiscono e ti portano ovunque. Su tutti, l’aroma dolce dei pomidori scottati e fatti a salsa. Poi arriva il basilico e il mosto d’olio e ti senti sulla costa e ti chiedi dove se ne cresce di così tanto e ti immagini terrazze nascoste, cortili che dietro i cancelli proteggono boschi di piante odorose: salvia, mentuccia, maggiorana, erba cipollina, rosmarino e alloro trionfale. Cipolle rosse fatte sudare ti portano alle coste mediterranee e ti immagini che infine, rese dolci e tenere, sposeranno pesci azzurri o forse pescati di lago. E poco più avanti, ecco le spezie, ora più dolci e discrete, ora decisamente insistenti. Zenzero, noce moscata, curry, curcuma, cumino, masala, peperoncini che parlano con la n morbida e magici miscugli che tradiscono terre d’oltre mediterraneo.

Estate.
Tempo di luce, di colori, di suoni e di sapori.
La vita della città si mescola nelle sue strade. Chi è curioso, sa che può vivere qualche ora di vacanza tutti i giorni. Chi si perde tra i vicoli rischia fiducioso di approdare ad occhi chiusi in porti lontani. Chi cerca tregua dai suoi pensieri la trova nei vicoli dei quartieri dove la vita quotidiana caotica e colorata si è mischiata e convive, nelle cucine così come nelle strade, cercando nuovi equilibri e sperimentando accostamenti che mai avrebbero potuto incontrarsi in altri tempi, in altri luoghi e che forse il caso ha fatto incontrare.
O forse, è solo l’estate in una città affollata di genti.