Domenica mattina dall’alto della mia città sento il rintocco dei campanili che si inseguono nel metronomo delle ore e delle messe.
E penso alle persone in fila, che varcano i portoni. E mi chiedo -come se lo chiedono loro – se forse questa è la mattina giusta, quella in cui troveranno le risposte che stanno cercando alle domande che non sanno farsi.
Domenica mattina dal terrazzo di casa mia sento il richiamo della sirena della fabbrica, che mi ricorda che, per me, il tempo di mio padre è il mio stesso tempo. E che chi dice che il lavoro è cambiato mente. Il lavoro è sempre lo stesso.E anche la dignità di chi lo affronta.
Ma il disprezzo, quello di chi non lo conosce, di chi non lo vive e perfino di chi l’ha vissuto e poi non più, di chi non sa o ha dimenticato sacrifici e sopportazione quello sì, quello è cambiato.
Ha parole nuove, vuote, sempre più lontane, che vestono di colori educati e ipocriti lo stesso identico odio.
Domenica mattina, nel fresco dell’aria carica di pioggia, dal mio letto sento il pianto di un bambino. E penso che vive qui, vicino a me. Forse la sua pelle ha toni nocciola o i suoi occhi sono più scuri e con un angolo più acuto dei miei. Stamattina l’ha svegliato una campana, o una sirena, oppure la fame, o il bisogno di amore.
Nel dormiveglia, il suo pianto è uguale a quello dei miei figli e a quello di tutti i bambini che qui, ora, in questa domenica mattina, nelle case della mia città si sono svegliati per gli stessi motivi. E mi rincuora sapere che dopo aver viaggiato, alla fine sono arrivati anche loro e siamo qui, insieme, ognuno con un letto nella sua parte di mondo. E che abbiamo pianti simili e bisogni simili e la stessa fame di amore e di vicinanza.
E credo che sia questa l’unica vera risposta che la città può darci in questa domenica mattina d’estate, mentre aspettiamo la pioggia.
So che ormai è un’abitudine. So che è un’abitudine superficiale e cafona. Mi rendo conto che, anche, spesso la forma non implica direttamente la sostanza. Ma il fatto è che, nonostante queste attenuanti, per principio io non dò mai della puttana a una donna. Quando sono venuta ad abitare in Carmine, sono state le mie prime amiche. Loro e i kebabbari aperti 24/7 che con il loro “Ciao Nadia!” si passavano da bottega a bottega il segnale che stavo tornando a casa sana e salva per un’altra sera.
Mio padre non lo sapeva mica, ma mi ha dato un nome che è anche arabo.
E mi ha protetto così tante volte che nemmeno lui può saperlo.
Il fatto è che i nomi sono importanti. Soprattutto se usati come insulti.
Puttana deriva dal latino putta, fanciulla. Quindi, in effetti, dare della puttana a una donna non è nulla di diverso che chiamarla signorina.
Ma c’è che quando diamo della puttana a una donna vogliamo farle del male.
Per fortuna, solo verbalmente.
Le puttane, per come le conosco io, sono donne che in quella situazione ci si sono per lo più trovate. E per come le conoscono al pronto soccorso, in situazioni così nessuno di noi vorrebbe mai trovarcisi.
Le puttane che mi sono state vicine di casa, in Carmine, mi sono state vicine in molte altre situazioni.
Ricordo M., che mi teneva sempre il posto per l’automobile quando la sera tornavo.
«Così non sei lontana dal portone», mi diceva. «Prepara le chiavi prima e vai a passo svelto, mi raccomando».
Poi c’era L., che un giorno che mi ha visto tornare a casa con la febbre si è offerta di arrivare in farmacia a comprarmi le medicine, se non riuscivo da sola.
L. era specializzata: comprava le medicine a tutti i vecchietti della via.
Chissà, mi sono chiesta, forse aveva qualche malato in famiglia di cui si prendeva già cura.
Con C. ho scambiato confidenze sui fidanzati, sempre sbagliati, uno peggio dell’altro.
Lei li capiva alla prima occhiata, gli uomini. Mai fidarsi, era il suo motto.
Magari per quello si faceva pagare.
D’inverno, in giornate come questa, mi affacciavo: nella via ci stavano il pomeriggio, nella pelliccia.
Sapevamo tutti dove abitavano, sapevamo benissimo cosa facevano.
L’unica cosa che non sapevo era se M. la trans fosse o meno operata; ma mi ha tolto un giorno ogni dubbio indossando una tutina in spandex così attillata che, se quel pomeriggio fosse passato di lì un dottore, avrebbe potuto visitarla solo con gli occhi.
Non capisco mai le polemiche sulle puttane. O meglio: le capisco nell’ordine in cui sono persone con cui la maggior parte della gente non ha alcun rapporto. Se ce l’ha, prevede uno scambio di denaro. Come se fossero cose. A una puttana che intervistai per un’inchiesta, chiesi se era felice del suo lavoro. Lei mi disse di sì.
«Tu vendi la tua intelligenza ogni giorno. Io qualcosa di molto meno prezioso. E per molti più soldi.»
Se è il mestiere più vecchio del mondo, ci sarà un motivo: l’ho capito quel giorno.
A me le puttane piacciono. Se gli è stata data una scelta, allora sono spesso donne con una conoscenza della vita e dell’essere umano che in pochi possiedono.
Sono concrete, oneste, sveglie, intelligenti, discrete.
Ma la verità è che le puttane appartengono a quello strato della società che non esiste, che non si considera. Si usa il plurale, come ho fatto io, le si chiama “le puttane” e si fanno grandi discorsi sulla loro pelle. Ci si mettono dentro tutte: quelle giovani e quelle vecchissime, quelle che ci si sono trovate per disperazione e quelle che l’hanno scelto perché già che gli piaceva tanto valeva farne un mestiere, quelle che ci finiscono a furia di botte e quelle che non c’è bisogno di picchiarle perché il male fisico non riuscirebbe mai a cancellare l’annientamento psicologico di una donna che si è sempre sentita usata senza dignità.
Noi e le puttane abitiamo lo stesso pianeta. E abbiamo le stesse complicate differenze. Ma quando si parla di puttane, il qualunquismo e la generalizzazione sembrano avere il sopravvento.
È come se si volesse semplicemente cancellarle senza nemmeno prendersi prima la briga di conoscerle.
E si dimentica qual è l’unica vera condanna di chi fa questa vita: non poterne mai uscire.
Ricordo quello che è successo a C..
E la ricordo perché C. aveva la stessa età di mia cugina Monica, 43 anni.
E il giorno in cui C. mi disse che mollava tutto e che finalmente cambiava vita, mia cugina veniva ricoverata per problemi allo stomaco.
In realtà si è scoperto che lo stomaco non c’era più, che lei era tutta una metastasi e che l’unica cosa da fare era non avere rimpianti. Mia cugina non è più uscita. E otto mesi dopo, un giorno qualunque dopo il suo funerale, anche C. è tornata al suo posto.
Non ho avuto il coraggio di chiederle nulla, per settimane. Poi, un pomeriggio, me l’ha detto lei: aveva aperto un bar, molto lontano dalla città, dove era sicura che nessuno la conoscesse. E invece, qualcuno l’ha riconosciuta. Il bar è diventato il bar della puttana e chiunque ci faceva quello che voleva. Ha dovuto smettere per non avere troppi debiti da pagare. Ha avuto paura, più paura che in strada.
«Se sei una puttana, la gente non ti rispetta.»
«E se sei una persona?» ho chiesto io.
Se sei una persona il rispetto puoi pretenderlo. Forse che qualcuno dubita del fatto che le puttane siano persone?
Il mio treno rientra da Roma alle 21:55. Siamo al binario 7. Durante il viaggio, ho letto Ausmerzen, il testo che Marco Paolini ha pubblicato dopo l’omonimo spettacolo. Dentro ci racconta una storia atroce, che tutti conosciamo ma che non sappiamo nei dettagli. Ci racconta di eugenetica: quel sistema che unisce pensiero, scienza, politica e sociologia e che ha a che fare con la distinzione non solo delle razze, ma anche delle persone. Una categorizzazione tra degni e indegni, tra utili e inutili. Tra meritevoli e parassiti. Tra chi va aiutato e chi va eliminato. Il libro non è solo estremamente intenso e coinvolgente. È anche indispensabile per capire come alcune idee possano ciclicamente tornare a serpeggiare, di come la propaganda possa riuscire efficacemente a promuoverle al punto che diventano nostre, ci appartengono. E le applichiamo nelle nostre azioni quotidiane. O, meglio, molto più spesso, in ciò che non facciamo.
Non si è spettatori di colpe di altri, è un «viaggio allucinante» dentro noi stessi, con un bagaglio crescente di dubbi, di domande difficili, di analogie con altri fatti, altri uomini, con la quotidianità di ogni giorno.
Un esempio su tutti.
Ieri sera torno da Roma con il treno delle 21:55.
Sul binario, cammino trascinando la valigia. Di fronte a me, una signora dalla pelle color dell’ebano. Ha un bambino legato sulla schiena che dorme tanto beato quanto spalmato. Una bella bimba con due codini le tiene la mano. La signora ha due bambini, una borsa, una valigia, un passeggino carico di cose. Ma ha anche altro: una sacca enorme, caricata allo stremo della capienza. Un uomo gliela allunga dal vagone. La borsa è troppo carica. Lui pensa di aver già fatto fin troppo. La borsa si rompe. Un bricco di latte condensato rotola sotto il treno. L’uomo se ne va. È corrucciato e scuote la testa. La signora ha due bambini, uno a spalle, una per mano, una borsa, una valigia, un passeggino carico di cose e una sacca rotta con il cibo sparpagliato per terra. Vicino a lei, i passeggeri scendono assonnati e indifferenti. Poco alla volta, svuotano il marciapiede.
Restiamo io e tre ragazzi, tutti con un piccolo trolley.
Vorrei chiederle come succede che sul mio stesso treno possiamo viaggiare io che mi sono fatta una festa della mamma senza bambini a Roma e lei che viaggia portandosi dietro 60 kg di latte. Non mi sembra il caso. Mi fermo invece a chiederle se ha bisogno di aiuto. Una domanda stupida: certo che ne ha bisogno.
Mi chiede se posso aiutarla a recuperare il bricco di latte caduto sotto il treno.
La situazione è davvero grave.
La questione non è il fumo in sé: è il fumo in me. E quando toccherà a noi ? […] Ciò su cui stiamo riflettendo sono elementi sottili, come sottile è la depersonalizzazione collettiva per cui diventa normale non reagire e farsi i fatti propri.
In qualche modo, io e uno dei ragazzi che si è fermato (gli altri se ne sono andati: erano stanchi) siamo riusciti a compattare la sacca e caricarla sul passeggino. Ad aiutare la donna è arrivata una sua amica, in abito lungo e ciabatte. Ho caricato una borsa sulla spalla, ho preso la bimba per mano e ci siamo avviate alle scale.
La stazione di Brescia è piena di scale, come tutte le stazioni dei treni.
La civiltà di una città si misura anche da questo: la vita è fatta a scale, chi le sale e chi, anche volendo, non può.
Ma gli altri, quelli che non si fanno domande, cosa pensano? Forse, chissenefrega. Forse, non è un problema mio. Forse, se lo meritano.
A portar giù tutto quel peso non ce la potevamo fare. Abbiamo chiesto aiuto.
Giù dalle scale, anche il ragazzo che ci ha aiutato se n’è andato: suo padre gli ha detto che aveva fatto abbastanza. E poi fuori pioveva.
La scienza diede il proprio avvallo, la chiesa tacque, molti girarono lo sguardo altrove. Poi, fu troppo tardi.
Siamo arrivate sotto la scalinata più difficile, quella che porta all’uscita.
Che fortuna, ho pensato: c’è un ascensore per disabili.
Il campanello dice: suonare per chiamare il responsabile della stazione.
Suono.
Aspettiamo.
Suono.
Aspettiamo.
Suono.
Aspettiamo.
Aspettiamo.
Aspettiamo.
Chi aspetta, ha fiducia. Ma chi aspetta troppo finisce per disperare. Sono andata a chiedere aiuto. Un gruppo di ragazzi col cappello da alpini, un po’ a malavoglia, ci hanno fatto da facchini. Ho chiesto alle donne se ci fosse qualcuno che sarebbe venuto a prenderle. Mi hanno ringraziato moltissimo, ma non hanno risposto alla mia domanda. Ho salutato la bimba e mi sono avviata verso casa.
Prima dell’uscita, ho incrociato un poliziotto in divisa. Stava chiacchierando con una coppia di soldati in mimetica, un lui e una lei.
Gli ho detto del campanello che non chiama nessuno, né l’ascensore né il responsabile della stazione.
Dice che a quell’ora non c’è nessun responsabile in stazione. Dice anche che quel bellissimo ascensore cromato ThyssenKrupp non ha mai funzionato. Che è stata alla stazione di Brescia anche Striscia la Notizia. Eppure, nemmeno loro hanno fatto il miracolo.
«E se non ci riescono loro, di certo non possiamo farlo noi» dice.
Ah, ecco. Il Gabibbo.
PS: Le fotografie di questo post sono tratte dal libro fotografico “Fanno finta di non esserci” fotografie di Simone Casetta con un testo di John Berger. Sono scatti di resti umani anatomici conservati nei sotterranei di un noto istituto ospedaliero della capitale. Sono resti anatomici, feti, parti di corpi che la medicina ha imbalsamato per scopi scientifici. Sono uomini senza nome, bambini gravemente deformati, corpi di grande interesse scientifico e nessun valore umano. Appartengono a un passato molto recente, qualcuno di loro potrebbe avere l’età di un parente a noi caro e ancora vicino. Per il fascismo, sono state vite utili solo per la medicina. E in questo stato, senza riconoscimento, senza nomi se non quelli della patologia che li ha afflitti mortalmente, riposano, dimenticate. Informazioni sul fotografo e sul libro le trovate qui.
io questo faccio nella vita: comunico.
lo faccio come lavoro da più di quindici anni.
ma per istinto, per indole, per necessità vitale lo faccio da che ho memoria.
comunico con tutto quello che posso. il mezzo è il linguaggio. lo strumento immediato e istintivo, la voce. quello più razionale e meditato, la parola scritta.
io scrivo, scrivo, scrivo sempre, comunque, dovunque.
se fossi un uomo, forse scriverei anche sulla sabbia. o sulle pareti.
in questi anni ho scritto di tutto, in ogni modo, per chiunque.
ho scritto per gli editori e per gli scrittori, per gli attori e per il loro pubblico, per i preti e per gli sposi. i biglietti d’auguri della mia famiglia li scrivo tutti io, tranne quelli che arrivano a me. ho scritto per far conoscere qualcosa o qualcuno e anche per nasconderlo. ho scritto per raccontare una storia; o perché la storia, così com’era accaduta, venisse dimenticata. ho scritto cose belle che hanno fatto del bene e mi hanno fatto diventare una persona migliore. ho scritto cose che ho dimenticato di aver scritto per non rischiare di invischiarmi troppo con il loro contenuto.
ho scritto perché dovevo e, fortunatamente, quasi sempre l’ho fatto volentieri, a volte addirittura con entusiasmo. di tutto ciò che ho scritto, conservo emozioni e ricordi piacevoli.
perché le parole scritte sono nate da comunicazioni che sono prima avvenute con i linguaggi della vita, quella d’istinto, quotidiana, dei piccoli momenti che diventano grandi nell’intimità della memoria e del ricordo ad anni di distanza.
io comunico perché sono viva. e sono viva solo se riesco a comunicare.
ascolto, parlo, racconto, sento, condivido, raccolgo e medito.
solo così ho il senso di esistere.
ma ci sono momenti in cui le parole non escono e mi rendo conto che ci sono cose che non so dire e che non riesco nemmeno a scrivere. e che c’è una parte di vita che mi sfugge. o che non riesco ad affrontare.
come quando mia figlia vede scorrere nell’indifferenza del flusso televisivo le immagini delle carestie in Somalia e in Corno d’Africa. e di fronte a quel fiume di sofferenza e di parole che per lei non hanno alcun significato vivo, ma che raccontano di morte vera, vicina, senza senso, mi chiede:
«mamma, i bimbi hanno fame. anche loro pappa. no? perché no?»
ci risiamo.
è tornata la moda di farsi infilare un tubo nel culo per vedere quanta merda ci siamo tenuti dentro. il nome tecnico è pulizia del colon o idro-colon-terapia. ma la verità è quella: c’è uno che ha sprecato anni a studiare medicina per poi ritrovarsi a sturare buchi di culo a sconosciuti che non hanno mai nemmeno letto La giuliva siringa di Piero Lorenzoni (Milano, 1969). Habemus clysterium solitarium: questo l’inno di uomini e donne del XVII secolo, che ben sapevano che il clistere è un piacere che va consumato in religiosa solitudine o in complice compagnia.
ma la spedalizzazione ci attanaglia, almeno quanto l’ossessione della connettività costante.
mai come ora, due cose ci riempiono l’animo di meraviglia: quella cosa che sempre è tutta intorno a te e la materia umorale dentro di te. meglio è che Kant non possa più dire la sua in merito.
dopo ciò che è tutto intorno a noi, siamo ossessionati da ciò che abbiamo dentro di noi. ma molto dentro, là dove sarebbe bene non andare a ficcare il naso per ovvie e sensate ragioni. e invece ci si va, con la testa pesante e il portafogli un bel po’ più leggero.
perché andare a rimestare nella merda ci è familiare, rassicurante.
se poi a farlo è un medico, c’è anche una spiegazione scientifica.
in fondo, ogni mamma conosce benissimo l’impegno e la dedizione nel tener conto e analizzare con perizia archeologica le defecazioni delle proprie creature e offrirne report dettagliati e possibilmente corredati di reperti freschi al medico di fiducia.
e che anziano sarebbe quello che non passa la giornata a narrare il suo difficile quanto miracoloso rapporto col wc?
l’amore per la cacca dà sempre i suoi frutti.
ma diventa preoccupante quando questa pratica, di per sé assolutamente necessaria alla vita, si tramuta in qualcos’altro. ad esempio, nell’ossessione della purificazione, che dev’essere esterna come interna, nell’inutile e fallimentare tentativo di eliminare dal proprio corpo ogni traccia di umanità, ivi compresi i naturali effluvi del tenero intestino.
e il pericolo è lì, dietro l’angolo della clinica linda e pinta, tutta profumata di cloruro di follia.
è quella in cui ti sdrai e ti rilassi e uno con l’appeal di un medico open mind ti legge la cacca, raccontandoti che soffri di sindrome di abbandono, di turbe affettive, di un negativo rapporto con la tua prozia morta prima di rivelarti i suoi numeri al lotto, di disturbi dell’ego che ti fanno sentire superiore al tuo capo, di una sessualità che ti frustra perché non hai mai esplorato i meravigliosi sentieri dell’analità. e te li legge così, con leggerezza, tutti questi segreti. te li legge nella cacca, svelandoli al mondo, portandoli alla luce, come un archeologo che riporti alla luce lo scheletro dell’amante a fianco di quello della regina.
c’è un motivo per il quale la cacca rimane nascosta al mondo. e c’è un motivo per cui questo mistero insondabile non debba essere violato con dei sondini. attenti a voi, sciagurati! fatti non foste a guardar dentro i tubi, ma per usar clisteri e un po’ di decenza.
in questo periodo, mi sono data all’erosione dell’empatia. non nel senso che la pratico, almeno non più di qualsiasi altra persona nelle mie stesse condizioni di vita. più nel senso che cerco di capire esattamente com’è che inizia, come succede, da che punto in poi è come se ci fosse un grado zero da cui l’empatia diventa minima, insignificante, ininfluente.
e mentre penso a questa cosa, ogni tanto mi capitano serate come quella di ieri.
ieri, 10 settembre, sono stata in un posto very very very milanese, off course, che si chiama “carroponte” perché è un locale sotto un carroponte dismesso delle industrie marcegaglia a milano.
quidem nomen.
più o meno.
insomma, ieri sera sono stata al concerto di Fabri Fibra, all’anagrafe Fabrizio Tarducci, per gran parte del web Fabrizio Fibrazio.
la prima volta che l’ho visto su un palco era l’inverno del 2007. con il pezzo “applausi per Fibra” aveva fatto successo e iniziato a vendere di bestia, MTV l’aveva traghettato nell’olimpo dei mercati che vendono (teens e dintorni), era ufficialmente un reietto del mondo che l’aveva generato, un venduto, uno che aveva perso l’ambizione per il primo assegno succoso.
la prima volta che l’ho visto su un palco ci stava con suo fratello e un dj. passava da una quinta all’altra guardando per terra, con quel fare tipico dei rapper che si concentrano sulle rime per non sbagliare e cercano di non pensare che quando le avevano scritte, quelle rime, erano incazzati con ciò che anche quel palco rappresenta.
ma è così che succede.
ogni rivoluzione, per piccola o grande che sia, prima o poi deve fare i conti con la realtà.
nemmeno garibaldi avrebbe voluto stare su un piedistallo.
la prima volta che ho visto Fibra su un palco mi è sembrato esausto, fattissimo, un po’ triste.
per il concerto di ieri mi sono preparata a dovere.
una settimana di dieta. look che mai avrei osato per un’altra occasione.
sono perfino arrivata con un’ora di anticipo.
non ci giro intorno: mi sono molto divertita. quello che c’era sul palco era uno show divertente, entusiasmante, energico, il più bel live di rap italiano che abbia visto finora.
però non ero preparata a una cosa, che in effetti mi ha ributtato in mezzo alla questione dell’empatia che viene erosa senza che il comune senso della decenza ne sia minimamente intaccato. il fatto è che al concerto di Fabri Fibra c’erano un sacco di bambini. e quando dico bambini, intendo davvero bambini: dai due anni in su. e quando dico un sacco, dico che sembrava che avessero venduto i biglietti a un grest.
e insomma, come succede che Fibra è diventato roba da famiglie?
o che le famiglie sono diventata roba da Fibra?
e allora oggi questo post lo scrivo perché voglio ricordarmi e ricordare perché ho iniziato ad ascoltare le sue rime. perché nella volgarità misogina portata alle estreme conseguenze ci trovo un po’ di poesia, come quella delle memorie delle puttane che non si pentono o anche i libri dei cattivissimi della generazione beat o quelli degli amici lavoratori onesti/scrittori pulp che raccontano i retroscena delle loro giornate con la crudezza di una frattaglia ancora sanguinolenta.
ne elenco qui alcune, perché anche se è vero che [cito] prima col rap non faceva un granché e adesso col rap ci ha comprato il parquet …a me quel Fibra là mi piaceva, più grezzo che ironico, più stronzo che saggio.
ed ecco quindi alcuni versi dall’immortale canzoniere del Tarducci:
a scuola ho sempre fatto scena muta perché pensavo: chissà la prof come lo suca!
ho comprato un tubo di baci perugina. il biglietto interno diceva: leccherai una vagina.
perché ho leccato le fighe più sozze, quelle che profumano di cozze.
come paola barale in cerca di un contratto, in giro a fare orge con lo sguardo sempre sfatto. vorresti essere un divo? io non t’invidio.
alcolico al livello non sono tuo fratello: io faccio il rap solo per dare via un po’ più di uccello. capisci? questo è il bello.
se tu sei un divo, allora mi domando: io sono morto o sono vivo?
resta nell’ombra della mia sigla: doppia effe come fregna e figa
andiamo in bagno e ci facciamo una riga, così cambiamo pelle come i litfiba. e visto che ci siamo ti lecco la figa, ma cadi a terra e ti rompi la tibia.
Negli anni ’90, il premio nobel Amartya Sen ha lanciato un allarme: il mondo stava cancellando generazioni intere di donne. In vent’anni, l’eccidio di genere ha portato alla sparizione di circa cento milioni di donne che non sono mai nate o, se l’hanno fatto, sono state uccise.
O lasciate morire.
In ogni parte del mondo, le donne muoiono ogni giorno in modi diversi.
A volte molto violenti, altre solo più lenti.
Di questo sacrificio collettivo sento l’urgenza di raccontare al più presto.
Perché qualcosa si risvegli, fosse anche un senso di solidarietà e di appartenenza.
Prima che diventi sopravvivenza.
dalla mia finestra si vedono due arcobaleni luccicanti, perfetti, completi.
ho pensato di seguirli per vedere se ai loro piedi c’è una pentola d’oro.
fatto.
finiscono entrambi su due banche diverse.
quindi.
la pentola d’oro c’era davvero.
ma è già stata presa.
l’acetone
la batteria del telefonino
il sale grosso
la crema solare
il dentifricio
il detersivo della lavatrice
il latte
la farina
gli assorbenti
la crema per i talloni screpolati
l’inchiostro della stampante
il liquido tergicristalli
la ricarica della sim
sono le cose che mi sono venute in mente . quelle che sono proprio così. cioè quelle cose che non hanno un consumo prevedibile.
tutt’altro.
si consumano secondo quattro principi combinati.
il primo è che il loro consumo non è regolare nel senso che per un po’ sembrano infinite poi, d’un tratto, scarseggiano e improvvisamente finiscono.
il secondo è che sanno quando finire.
ed è sempre il momento peggiore.
il terzo è che si consumano preferibilmente la mattina (se si tratta di oggetti d’uso quotidiani) e mentre li stai usando, lasciandoti a un punto clou. comunque, in giorni e orari in cui non puoi provvedere al rimpiazzo immediato.
la quarta, e più significativa, è che quando almeno due di queste cose finiscono improvvisamente, la giornata sarà storta, molto storta.
molti anni fa ho perso una cosa importante.
molto importante.
così importante che, perdendola, ho smarrito una parte di me.
perfino quel che ne è rimasto
non si è mai riconosciuta nello specchio
tutto maschile
che le si offriva.
alla fine, ho rigettato tutto.
ma in qualche modo so
che quella cosa così importante mi è sempre mancata.
e il desiderio di ritrovarla mi ha spinto
negli anni
a ricercarne gli indizi.
volevo che tornasse
da me.
ma con un’esistenza nuova.
diversa.
volevo che fosse mia,
che mi aiutasse ad essere felice
riconoscendomi.
sono anni che ne cerco le tracce.
chissà perché
non avevo mai pensato
di cercarle
in provincia di Grosseto.
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