fatemelo dire: questa cosa della mamma di Baltimora è schifosa. non tanto per la cosa in sé, che mi pare una faccenda da tinello. ma perché in Italia è diventato allegro Read More
Posts tagged donne
sally ti presento harry. o di come anche gli uomini fingono a letto
oh ooh o-ooooh.
fa di nuovo scalpore in questi giorni la notizia che anche agli uomini capita di fingere l’orgasmo. anch’io ne fui sorpresa – di più: sconvolta – alla prima pubblicazione, due anni fa. e ne feci Read More
la violenza di ogni giorno
Oggi è il 26 novembre. Se anche rimane qualche eco della giornata di ieri, rapidamente si spegnerà entro mezzanotte. Siamo figlie di cenerentola, noi, e speriamo sempre Read More
Che gambe!
la mia amica arianna chieli ha avuto un’idea geniale.
e così ha messo insieme me, alessandra airò, eliselle e daniela farnese per un libro di racconti erotici a tema “le gambe delle donne”.
non me lo sono fatta ripetere due volte: mi sono tuffata indietro nel tempo, ho raggiunto Casanova a Venezia nel 1756 e mi sono lasciata trasportare dalla sua gondola nella notte del suo ultimo carnevale in laguna, tra amori proibiti e donne pericolose.
il mio racconto si intitola AU REVOIR AMOUR (The last Carnival of Casanova) e sta dentro un ebook molto sexy (in italiano e in inglese).
insieme, c’è anche un concorso internazionale e soprattutto ci sarà un galà a dicembre, dove saremo tutte lì: noi e le nostre gambe.
trovate tutto sulla pagina Wolford di Facebook.
dateci dentro!
Occuparsi della violenza: non è facile, ma è giusto
Lo sapete già se siete su Facebook e avete amici coinvolti nei dibattiti sul genere, se siete iscritti alla mailing list della Consigliera di Parità della Provincia di Brescia, se frequentate blog che trattano il tema della violenza come Un altro genere di comunicazione, Rete delle donne o Se non ora quando, ne siete a conoscenza se simpatizzate per la Casa delle Donne onlus, se seguite su twitter le community che si battono per i diritti civili, se frequentate amicizie in cui il dibattito sui conflitti di genere è un tema appassionante che vale la pena sollevare perché include un largo ventaglio di diritti civili sempre più a rischio di essere cancellati.
Non ne sapete niente se siete una persona che si informa solo dalla televisione, se ascoltate stazioni radio pop dove i programmi di intrattenimento oggi lanciano temi come “saremo più o meno felici con l’ora legale”, se non avete alcuna socialità nel virtuale, se avete prenotato l’anteprima per il prossimo cinepanettone, se sentenziate ad alta voce e in pubblica piazza che Belen è una pessima madre (e che ve l’aspettavate anche prima), se liquidate le donne in prima linea affermando ad alta voce che perdono in femminilità, se dite con convinzione che gli uomini vengono da marte e le donne da venere, se ascoltate Giovanardi con sollievo pensando che c’è chi la pensa come voi, se vi siete sposati senza fare accordi prematrimoniali perché tanto l’amore sistema tutto, se siete uomini sicuri che ci sono lavori fatti solo per voi e se siete donne convinte che spetti a voi tenervi stretto il vostro uomo.
Ma se state leggendo questo post, allora adesso lo sapete anche voi: o ggi è il 28 ottobre e oggi anche a Brescia si svolgerà l’iniziativa POSTO OCCUPATO. Se vi interessa l’inchiesta, cliccate sul link e andrete al sito in cui ci sono notizie, fotografie e materiali di approfondimento. Se invece vi interessa partecipare, allora dovete fare così:
oggi occupate un posto. Read More
L’orrore normale
Sto conducendo in questi giorni un’inchiesta sugli uomini violenti che finiscono per trasformarsi in carcerieri, torturatori e addirittura assassini. Il pretesto è un caso VIP: quello di Pistorius, atleta di fama mondiale, uomo di grande ambizione e determinazione in grado di abbattere la barriera che separa sportivamente i sani dai mutilati, ma che nel privato era noto per essere un compagno violento e irascibile.
Nel condurre ricerche sul femminicidio, come al solito, mi sono imbattuta nel dipanarsi graduale della violenza. Il femminicidio è l’ultimo atto, quello in cui la protagonista muore. Ma prima c’è la sua lunga e dolorosa storia.
Io che per mestiere nella mia vita comunico, quando affronto questo tema mi sento in dovere ogni volta di richiamare quella che reputo la verità più dolorosa ma utile: la violenza è quotidiana e spesso invisibile, nascosta dalla banalità e dall’ordinarietà, da un aspetto mite, dall’ammonimento costante a non insinuare il dito o il dubbio sulle altrui relazioni.
Esiste un sito che si chiama In quanto donna.
Lo cura una donna, Emanuela Valente, che ha iniziato negli anni a raccogliere i nomi e i volti di chi ha ucciso (uomini) e di chi è stata uccisa (donne, spesso anche figlie).
Scorrendo i ritratti degli assassini la cosa più sconcertante è la loro normalità.
Sotto a facce che sono quelle di un padre, di un panettiere, di un postino, di un dottore ci sono didascalie raccapriccianti:
– Luigi Faccetti, 24 anni. Massacra con 14 coltellate la fidanzata, che si salva, e viene condannato a 8 anni. Dopo 10 mesi gli vengono concessi i domiciliari, fa sequestrare l’ex fidanzata e la uccide con 66 o 80 coltellate, di cui 20 al cuore. Condannato a 30 anni con rito abbreviato, pena confermata in appello il 31 gennaio 2013.
– Ruggero Jucker detto Poppy, 36 anni, rampollo della Milano bene, Re della zuppa. Fa a pezzi la fidanzata con un coltello da sushi e lancia i pezzi in giardino. Condannato a 30 anni in primo grado, pena patteggiata in appello e scesa a 16 poi ulteriormente ridotta a 13. Ha già usufruito di 720 giorni di libertà come permessi premio e avrebbe dovuto essere libero da giugno 2013, ma la scarcerazione è stata anticipata per buona condotta (13 febbraio 2013).
– Maurizio Iori, 49 anni, primario oculista. Accusato di aver avvelenato l’amante e la figlioletta di due anni, condannato all’ergastolo e 2 anni di isolamento diurno (Sentenza 18 gennaio 2013).
– Antonio Giannandrea, 18 anni, studente. Picchia, soffoca e sgozza la fidanzata con un coltello da cucina. Poi getta il corpo in un burrone e tenta di depistare le indagini. Chiesti 16 anni con rito abbreviato.
Dentro questo sito ci sono anche loro:
– Desiree Piovanelli, 14 anni, studentessa. Accoltellata e morta dissanguata dopo un’ora e mezzo di agonia, con i piedi legati con un nastro da pacchi, dal cosiddetto “branco di Leno”: 4 amici di infanzia, di cui solo uno maggiorenne.
– Patrizia Maccarini, 43 anni, operaia. Uccisa con una coltellata al cuore dall’ex fidanzato.
– Hina Saleem, 20 anni, lavorava in una pizzeria. Sgozzata e seppellita nell’orto dal padre, due cognati e uno zio.
– Francesca Alleruzzo, 44 anni, mamma di 4 figlie, maestra. Uccisa a fucilate dall’ex che ha ucciso anche il nuovo compagno di lei, Vito Macadino, e si è poi recato in casa dove ha ucciso una delle figlie, Chiara, 19 anni e il suo ragazzo Domenico Tortorici.
– Monia Del Pero, 19 anni. Strangolata, denudata, messa in un sacco della spazzatura e nascosta in una conduttura delle acque dall’ex fidanzato.
– Moira Squaratti, 26 anni, assistente in uno studio dentistico e volontaria Avis. Picchiata, strangolata e uccisa con 15 coltellate dal fidanzato.
Ieri in piazza abbiamo ballato anche per loro. Scacciando, con la gioia della danza, la terribile sensazione che l’anno che sta arrivando non sarà migliore di quello passato.
Ancora per troppe donne come noi.
A. Con. Per. L’importante è fare l’amore.
La mia nonna era una donna d’altri tempi. Tra lei e me c’è un secolo breve, due guerre, nove gravidanze, sette figli diventati adulti. Una parte della mia formazione in fatto di relazioni la devo a lei. A lei e al Cioè, ché quando io mi sono improvvisamente accorta che esistevano i maschi e abitavano il mio stesso mondo e in fondo non erano poi così male -anche se bastava lanciargli una palla perché si mettessero a correre come dei cani- non c’era internet. E di certe cose ce ne metti un bel po’ prima di renderti conto che puoi parlarne con mamma realizzando che è una donna anche lei e, in qualche modo, c’è già passata.
Dopo nove gravidanze mia nonna aveva da insegnarne parecchie sulle conseguenze dell’amore. E, più precisamente, sulle conseguenze dirette del fare all’amore.
Che ai suoi tempi era una cosa seria e noiosissima. Fare all’amore a qualcuno significava corteggiarlo formalmente. Cioè passare le serate mano nella mano seduti in salotto sotto lo sguardo attento e inquisitore di parenti e animali domestici. Fare all’amore, ai tempi della mia nonna, valeva più o meno come l’abitudine a farsi compagnia. Read More
Contagiose e umili
non chiamateci puttane
So che ormai è un’abitudine. So che è un’abitudine superficiale e cafona. Mi rendo conto che, anche, spesso la forma non implica direttamente la sostanza. Ma il fatto è che, nonostante queste attenuanti, per principio io non dò mai della puttana a una donna. Quando sono venuta ad abitare in Carmine, sono state le mie prime amiche. Loro e i kebabbari aperti 24/7 che con il loro “Ciao Nadia!” si passavano da bottega a bottega il segnale che stavo tornando a casa sana e salva per un’altra sera.
Mio padre non lo sapeva mica, ma mi ha dato un nome che è anche arabo.
E mi ha protetto così tante volte che nemmeno lui può saperlo.
Il fatto è che i nomi sono importanti. Soprattutto se usati come insulti.
Puttana deriva dal latino putta, fanciulla. Quindi, in effetti, dare della puttana a una donna non è nulla di diverso che chiamarla signorina.
Ma c’è che quando diamo della puttana a una donna vogliamo farle del male.
Per fortuna, solo verbalmente.
Le puttane, per come le conosco io, sono donne che in quella situazione ci si sono per lo più trovate. E per come le conoscono al pronto soccorso, in situazioni così nessuno di noi vorrebbe mai trovarcisi.
Le puttane che mi sono state vicine di casa, in Carmine, mi sono state vicine in molte altre situazioni.
Ricordo M., che mi teneva sempre il posto per l’automobile quando la sera tornavo.
«Così non sei lontana dal portone», mi diceva. «Prepara le chiavi prima e vai a passo svelto, mi raccomando».
Poi c’era L., che un giorno che mi ha visto tornare a casa con la febbre si è offerta di arrivare in farmacia a comprarmi le medicine, se non riuscivo da sola.
L. era specializzata: comprava le medicine a tutti i vecchietti della via.
Chissà, mi sono chiesta, forse aveva qualche malato in famiglia di cui si prendeva già cura.
Con C. ho scambiato confidenze sui fidanzati, sempre sbagliati, uno peggio dell’altro.
Lei li capiva alla prima occhiata, gli uomini. Mai fidarsi, era il suo motto.
Magari per quello si faceva pagare.
D’inverno, in giornate come questa, mi affacciavo: nella via ci stavano il pomeriggio, nella pelliccia.
Sapevamo tutti dove abitavano, sapevamo benissimo cosa facevano.
L’unica cosa che non sapevo era se M. la trans fosse o meno operata; ma mi ha tolto un giorno ogni dubbio indossando una tutina in spandex così attillata che, se quel pomeriggio fosse passato di lì un dottore, avrebbe potuto visitarla solo con gli occhi.
Non capisco mai le polemiche sulle puttane. O meglio: le capisco nell’ordine in cui sono persone con cui la maggior parte della gente non ha alcun rapporto. Se ce l’ha, prevede uno scambio di denaro. Come se fossero cose. A una puttana che intervistai per un’inchiesta, chiesi se era felice del suo lavoro. Lei mi disse di sì.
«Tu vendi la tua intelligenza ogni giorno. Io qualcosa di molto meno prezioso. E per molti più soldi.»
Se è il mestiere più vecchio del mondo, ci sarà un motivo: l’ho capito quel giorno.
A me le puttane piacciono. Se gli è stata data una scelta, allora sono spesso donne con una conoscenza della vita e dell’essere umano che in pochi possiedono.
Sono concrete, oneste, sveglie, intelligenti, discrete.
Ma la verità è che le puttane appartengono a quello strato della società che non esiste, che non si considera. Si usa il plurale, come ho fatto io, le si chiama “le puttane” e si fanno grandi discorsi sulla loro pelle. Ci si mettono dentro tutte: quelle giovani e quelle vecchissime, quelle che ci si sono trovate per disperazione e quelle che l’hanno scelto perché già che gli piaceva tanto valeva farne un mestiere, quelle che ci finiscono a furia di botte e quelle che non c’è bisogno di picchiarle perché il male fisico non riuscirebbe mai a cancellare l’annientamento psicologico di una donna che si è sempre sentita usata senza dignità.
Noi e le puttane abitiamo lo stesso pianeta. E abbiamo le stesse complicate differenze. Ma quando si parla di puttane, il qualunquismo e la generalizzazione sembrano avere il sopravvento.
È come se si volesse semplicemente cancellarle senza nemmeno prendersi prima la briga di conoscerle.
E si dimentica qual è l’unica vera condanna di chi fa questa vita: non poterne mai uscire.
Ricordo quello che è successo a C..
E la ricordo perché C. aveva la stessa età di mia cugina Monica, 43 anni.
E il giorno in cui C. mi disse che mollava tutto e che finalmente cambiava vita, mia cugina veniva ricoverata per problemi allo stomaco.
In realtà si è scoperto che lo stomaco non c’era più, che lei era tutta una metastasi e che l’unica cosa da fare era non avere rimpianti. Mia cugina non è più uscita. E otto mesi dopo, un giorno qualunque dopo il suo funerale, anche C. è tornata al suo posto.
Non ho avuto il coraggio di chiederle nulla, per settimane. Poi, un pomeriggio, me l’ha detto lei: aveva aperto un bar, molto lontano dalla città, dove era sicura che nessuno la conoscesse. E invece, qualcuno l’ha riconosciuta. Il bar è diventato il bar della puttana e chiunque ci faceva quello che voleva. Ha dovuto smettere per non avere troppi debiti da pagare. Ha avuto paura, più paura che in strada.
«Se sei una puttana, la gente non ti rispetta.»
«E se sei una persona?» ho chiesto io.
Se sei una persona il rispetto puoi pretenderlo. Forse che qualcuno dubita del fatto che le puttane siano persone?
L’eugenetica del Gabibbo
Il mio treno rientra da Roma alle 21:55. Siamo al binario 7. Durante il viaggio, ho letto Ausmerzen, il testo che Marco Paolini ha pubblicato dopo l’omonimo spettacolo. Dentro ci racconta una storia atroce, che tutti conosciamo ma che non sappiamo nei dettagli. Ci racconta di eugenetica: quel sistema che unisce pensiero, scienza, politica e sociologia e che ha a che fare con la distinzione non solo delle razze, ma anche delle persone. Una categorizzazione tra degni e indegni, tra utili e inutili. Tra meritevoli e parassiti. Tra chi va aiutato e chi va eliminato. Il libro non è solo estremamente intenso e coinvolgente. È anche indispensabile per capire come alcune idee possano ciclicamente tornare a serpeggiare, di come la propaganda possa riuscire efficacemente a promuoverle al punto che diventano nostre, ci appartengono. E le applichiamo nelle nostre azioni quotidiane. O, meglio, molto più spesso, in ciò che non facciamo.
Non si è spettatori di colpe di altri, è un «viaggio allucinante» dentro noi stessi, con un bagaglio crescente di dubbi, di domande difficili, di analogie con altri fatti, altri uomini, con la quotidianità di ogni giorno.
Un esempio su tutti.
Ieri sera torno da Roma con il treno delle 21:55.
Sul binario, cammino trascinando la valigia. Di fronte a me, una signora dalla pelle color dell’ebano. Ha un bambino legato sulla schiena che dorme tanto beato quanto spalmato. Una bella bimba con due codini le tiene la mano. La signora ha due bambini, una borsa, una valigia, un passeggino carico di cose. Ma ha anche altro: una sacca enorme, caricata allo stremo della capienza. Un uomo gliela allunga dal vagone. La borsa è troppo carica. Lui pensa di aver già fatto fin troppo. La borsa si rompe. Un bricco di latte condensato rotola sotto il treno. L’uomo se ne va. È corrucciato e scuote la testa. La signora ha due bambini, uno a spalle, una per mano, una borsa, una valigia, un passeggino carico di cose e una sacca rotta con il cibo sparpagliato per terra. Vicino a lei, i passeggeri scendono assonnati e indifferenti. Poco alla volta, svuotano il marciapiede.
Restiamo io e tre ragazzi, tutti con un piccolo trolley.
Vorrei chiederle come succede che sul mio stesso treno possiamo viaggiare io che mi sono fatta una festa della mamma senza bambini a Roma e lei che viaggia portandosi dietro 60 kg di latte. Non mi sembra il caso. Mi fermo invece a chiederle se ha bisogno di aiuto. Una domanda stupida: certo che ne ha bisogno.
Mi chiede se posso aiutarla a recuperare il bricco di latte caduto sotto il treno.
La situazione è davvero grave.
La questione non è il fumo in sé: è il fumo in me. E quando toccherà a noi ? […] Ciò su cui stiamo riflettendo sono elementi sottili, come sottile è la depersonalizzazione collettiva per cui diventa normale non reagire e farsi i fatti propri.
In qualche modo, io e uno dei ragazzi che si è fermato (gli altri se ne sono andati: erano stanchi) siamo riusciti a compattare la sacca e caricarla sul passeggino. Ad aiutare la donna è arrivata una sua amica, in abito lungo e ciabatte. Ho caricato una borsa sulla spalla, ho preso la bimba per mano e ci siamo avviate alle scale.
La stazione di Brescia è piena di scale, come tutte le stazioni dei treni.
La civiltà di una città si misura anche da questo: la vita è fatta a scale, chi le sale e chi, anche volendo, non può.
Ma gli altri, quelli che non si fanno domande, cosa pensano? Forse, chissenefrega. Forse, non è un problema mio. Forse, se lo meritano.
A portar giù tutto quel peso non ce la potevamo fare. Abbiamo chiesto aiuto.
Giù dalle scale, anche il ragazzo che ci ha aiutato se n’è andato: suo padre gli ha detto che aveva fatto abbastanza. E poi fuori pioveva.
La scienza diede il proprio avvallo, la chiesa tacque, molti girarono lo sguardo altrove. Poi, fu troppo tardi.
Siamo arrivate sotto la scalinata più difficile, quella che porta all’uscita.
Che fortuna, ho pensato: c’è un ascensore per disabili.
Il campanello dice: suonare per chiamare il responsabile della stazione.
Suono.
Aspettiamo.
Suono.
Aspettiamo.
Suono.
Aspettiamo.
Aspettiamo.
Aspettiamo.
Chi aspetta, ha fiducia. Ma chi aspetta troppo finisce per disperare. Sono andata a chiedere aiuto. Un gruppo di ragazzi col cappello da alpini, un po’ a malavoglia, ci hanno fatto da facchini. Ho chiesto alle donne se ci fosse qualcuno che sarebbe venuto a prenderle. Mi hanno ringraziato moltissimo, ma non hanno risposto alla mia domanda. Ho salutato la bimba e mi sono avviata verso casa.
Prima dell’uscita, ho incrociato un poliziotto in divisa. Stava chiacchierando con una coppia di soldati in mimetica, un lui e una lei.
Gli ho detto del campanello che non chiama nessuno, né l’ascensore né il responsabile della stazione.
Dice che a quell’ora non c’è nessun responsabile in stazione. Dice anche che quel bellissimo ascensore cromato ThyssenKrupp non ha mai funzionato. Che è stata alla stazione di Brescia anche Striscia la Notizia. Eppure, nemmeno loro hanno fatto il miracolo.
«E se non ci riescono loro, di certo non possiamo farlo noi» dice.
Ah, ecco. Il Gabibbo.
PS: Le fotografie di questo post sono tratte dal libro fotografico “Fanno finta di non esserci” fotografie di Simone Casetta con un testo di John Berger. Sono scatti di resti umani anatomici conservati nei sotterranei di un noto istituto ospedaliero della capitale. Sono resti anatomici, feti, parti di corpi che la medicina ha imbalsamato per scopi scientifici. Sono uomini senza nome, bambini gravemente deformati, corpi di grande interesse scientifico e nessun valore umano. Appartengono a un passato molto recente, qualcuno di loro potrebbe avere l’età di un parente a noi caro e ancora vicino. Per il fascismo, sono state vite utili solo per la medicina. E in questo stato, senza riconoscimento, senza nomi se non quelli della patologia che li ha afflitti mortalmente, riposano, dimenticate. Informazioni sul fotografo e sul libro le trovate qui.