venerdì è morta la zia adriana.
era una di quelle donne scricciolo, con le ossa piccole e fragili e due palle così. alla zia non le potevi tenere testa. si è sposata che ancora non era maggiorenne: aveva vent’anni, amava il suo uomo, voleva seguirlo nella sua avventura. i suoi genitori hanno firmato per lei sperando di non averla condannata a una vita di fallimento. le è andata bene perché si è scelta un uomo d’intuito, lo zio mario, pasticciere lungimirante, che ha aperto una delle prime pizzerie al nord.
la zia adriana se n’è andata in pochi mesi, consumata da un cancro al fegato che l’ha esaurita come una candela. la malattia l’ha assalita dopo il dolore perché, un anno fa, il cuore di suo marito sembrava reclamare la tregua eterna.
ieri ho fatto visita allo zio, ormai solo, in lacrime, che passa il tempo a pregare dio di portarselo via. non mi è rimasto niente, dice.
a misurarlo con la bilancia del mercato in piazza è un uomo ricco, il mio zio, di affetti e di beni. ma cinquant’anni d’amore ti pesano sul cuore senza che nessuno gli possa attribuire nemmeno il peso di una piuma.
da fuori, il dolore che si sente non si vede mica. e a piangerlo non gli si rende giustizia.
tornando verso casa pensavo che il mio zio, molto probabilmente se ne andrà presto. certi amori, infiniti, ti consumano proprio come fa la fiamma con la cera.
e ti salgono su per il sangue, finché sei in vita.
e ti scendono dalle ossa, quando non hai più chi ti ha sostenuto.
a me il senso della morte e anche quello dell’amore mi hanno sempre assalito in differita, come un ritorno di marea.
oggi che la zia adriana è stata omaggiata e sepolta e il mio zio ha cominciato la sua vita di cera, sono stata assalita da un’onda incontenibile d’amore per le persone con cui ho condiviso parte della mia vita, a cui ho donato, senza mai riprendermelo del tutto, il cuore.
pensavo anche che forse, un certo tipo di amore, io non posso viverlo perché il mio tempo è diverso. a diciannove anni avrei potuto sposare l’uomo che allora amavo e avremmo tentato insieme la strada del lavoro e della casa, legandoci indissolubilmente in quelle condizioni di vita che ti costringono sempre a sentirti in due come se fossi uno. se a ventitre anni mi fossi legata all’uomo che allora amavo pazzamente, magari con un figlio, avremmo condiviso per sempre un noi che era diventato tre.
e, invece, ho scelto altre strade, perché ho sempre avuto la possibilità di pensare per me stessa. non ho mai smesso di amare i due uomini che mi hanno cambiato la vita. così come non ho mai smesso di amare me stessa sopra ogni altra persona che ha attraversato la mia esistenza o le mie lenzuola.
è solo che alle volte, in sere come questa, con il reflusso del dolore e un senso di amore e di perdono universale che mi cattura l’animo, mi pare di amare da sola. e il mio senso di indipendenza mi fa dubitare che la scelta sia un macigno: morire da sola o amare fino a consumarmi.