solido congiunto


La crisi porta in sé grandi decisioni. La radice stessa κρίνω rivela quanto la potenza di un trauma sia pari alla lucidità con cui rende evidente ciò che conta davvero: se supereremo questa notte, non aspetteremo un altro giorno per amarci.
E fu esattamente così che, dopo la grande crisi del 2008, un uomo e una donna decisero che era giunto il momento di pianificare una vita insieme. Poi, in un giorno qualunque, senza nessuna ragione, lui morì, investito da un’automobile.
Per quasi tutto esiste un posto legittimo nel mondo: quello dell’auto era la strada. Aver invaso lo spazio dei pedoni autorizzò una causa risarcitoria, in cui la donna rimasta sola si costituì parte civile. Il processo fu quasi un successo: con ben sei anni di anticipo sulla legge, l’omicidio stradale venne riconosciuto e la perdita risarcita; per quanto sia possibile ripagare in denaro un corpo pieno d’amore ma privato della vita.

La sentenza fu viziata da un’obiezione, che evirò il risarcimento e scatenò l’ira dell’innamorata. La Corte territoriale dichiarò infatti che il danno fu solo materiale, ma non sentimentale: l’incidente tolse alla donna l’uomo, non l’innamorato. Lei si armò di pazienza e di una lunga lista di prove inequivocabili: lettere, bigliettini, fotografie, ricevute d’albergo dove i loro nomi risultavano come due metà della stessa camera; e poi: messaggi agli amici scritti al plurale, scontrini di cene per due sul lungomare, cartoni di pizza al metro nei due gusti preferiti, le scatole della pillola a basso dosaggio.
Nel retro di una station wagon l’avvocato caricò le prove di quella relazione straripante di promesse e partì alla volta di Milano per presentare ricorso. Lì, per quasi due anni, attese paziente una nuova sentenza; ma l’appello non diede gli esiti sperati. E dopo una telefonata con il suo ormai datato iPhone3, l’avvocato concordò con la donna che la posta in gioco era troppo alta per rinunciare. Dunque: via, verso Roma e la Cassazione.
Qui, i giudici riesaminarono il caso da cima a fondo e conclusero che sì: l’errore ci fu. Gli articoli 74 del codice penale e il 2697 del codice civile erano stati male applicati: la donna aveva il diritto a dimostrare l’esistenza di un profondo legame; che i giudici erano tenuti a valutare senza pregiudizio. Finalmente, l’avvocato schiuse il baule della station wagon traboccante di prove d’amore e la donna ebbe giustizia.
“La saldezza e profondità del legame dev’essere tale da rendere l’interruzione del medesimo rapporto meritevole di risarcimento”, precisò la suprema Corte. E poi, sganciò la bomba: è il dolore della perdita affettiva che dà la misura del danno, a prescindere dal legame giuridico. Infine, tirò le orecchie ai giudici: la convivenza non è co-intestare un affitto, bensì avere un legame “connotato da duratura e significativa comunanza di vita e di affetti”.
Eccolo, il valore della libbra di carne umana palpitante d’amore: 15mila euro fu il risarcimento per un promesso sposo ucciso anzitempo da un servosterzo difettoso.

Quel lunedì 10 novembre 2014 su Roma incombeva un cielo plumbeo, ambasciatore di temporali che si accalcavano senza mai rovesciarsi. Con la sentenza n. 46351 la Suprema Corte di Cassazione, sezione IV, definì per la prima volta il valore di una congiunzione umana in forma affettiva, relazionale, giurisprudenziale. E la pioggia arrivò.
Mai si sarebbe immaginata la donna che, sei anni dopo, la sua battaglia diventasse quella di tutti gli innamorati fuori legge, sregolati e disobbedienti, anarchici e libertini, che persistono nella folle determinazione di amarsi senza alcun sigillo statale.
Proprio il suo caso divenne il perno della circolare del Ministero dell’Interno n.15350/117 che chiariva l’oscuro termine apparso nel Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri nel maggio 2020, che attribuiva ai congiunti la legittimità di interrompere il confino domestico.

Arrossendo per questo protagonismo inatteso, la donna prese carta e penna e inviò al Presidente una breve lettera:
«Caro Presidente, lei è un avvocato, mentre io sono solo un’operaia. Certe cose del diritto io non le ho mai capite, anche se in tribunale ci ho passato sei anni. Con grande gioia, la mia giustizia è oggi quella di molti italiani innamorati. Lei guarda la nostra vita dall’alto del suo palazzo, io dal basso del mio lavoro; ma non per questo vediamo cose diverse. Quando due meccanismi congiunti dipendono l’uno dall’altro, in maniera inscindibile, noi diciamo che sono “solidali”. La solidarietà è un termine tecnico con cui noi meccanici indichiamo due elementi che sono necessari reciprocamente, ma inutili se separati. Anche la vita è un po’ così, lei non trova? Dobbiamo proprio aver bisogno l’uno dell’altra; e in questa fragilità, sentirci vivi e, per quel che ci è dato, anche felici.»