Mancavano solo i miei due cents sulla questione “presidente” Meloni. L’ho ascoltata con attenzione definirsi un “underdog”: quello su cui nessuno scommetterebbe, capace però di sparigliare i pronostici. L’ho soprattutto osservata con l’emozione e l’orgoglio di chi si espone e si batte, in ogni contesto e in ogni occasione, perché a salire su quel podio fosse finalmente una donna. Confesso di ripercorrere l’elenco dei trentuno presidenti del consiglio dei ministri della Repubblica dal ’46 ad oggi solo per arrivare alla fine e riconoscere, in carica, una donna con cui ho moltissimo in comune.
Come lei, anche io arrivo da una famiglia di provincia, per la quale scegliere di far studiare le figlie è stata una scelta non priva di ambivalenze. Come lei, ho separato genitorialità e relazione, perché bisogna fare molta attenzione a scegliere con chi firmare un contratto matrimoniale. Come lei, ho scelto bene quando e quanti figli avere, perché la maternità in questo paese è un lusso per le donne e un assedio alla loro indipendenza. Come lei, sono la persona più ambiziosa della famiglia. Come lei, sono insieme idealista e pragmatica: lotto per ciò in cui credo, ma combatto molto di più con le difficoltà della conciliazione casa-mondo. A differenza sua, però, io le riconosco un traguardo di cui vado fiera anche per lei: non c’è vittoria individuale nel ruolo che ricopre, non c’è eccezionalità, come non c’è nulla di personale nell’emergere dei grandi cambiamenti culturali, sociali e storici.
La presenza di Giorgia Meloni in quanto donna nella trentunesima casella dei Presidenti del Consiglio dei ministri della Repubblica Italiana è un’altra porta che si apre, un altro soffitto di cristallo che si rompe, un’altra chiave di volta su un ponte destinato a far passare dietro di lei moltǝ altrǝ esclusǝ. È la prima per non essere l’ultima. La sua ostinazione all’uso del maschile mi chiama in causa -come spero tantǝ di voi- sulla solitudine di una donna così libera, che così tanto nel privato e nel pubblico beneficia delle conquiste di quasi un secolo e mezzo di mobilitazioni femministe, che ancora nel punto più alto di potere che poteva raggiungere si sente sminuita dal suo stesso genere. La donna più potente della storia della Repubblica può definirsi pubblicamente nel suo discorso di insediamento un “underdog” poiché tuttora, su quel podio, si vede aristotelicamente come un «uomo imperfetto», che è esattamente come la vedono le persone da cui si circonda, con cui lei stessa collabora attivamente per richiudere dietro di sé la porta che ha aperto, far saltare i ponti che lì l’hanno portata, recidere ogni legame tra la carica che ricopre e il suo sesso biologico. Sia ben chiaro: per me Giorgia Meloni può autoderminare per se stessa nome, genere, scelte private e pubbliche. La sua sola presenza in quanto donna è per me fonte di giubilo e trionfo, poiché finalmente possiamo battagliare sul merito politico, avendo oggettivamente raggiunto un risultato nella rappresentanza. Un risultato che lotterò perché non sia un’eccezione, ma una norma sempre più ampia.
Sarà proprio lei la fine del mio excursus sulla storia del femminismo in Italia quando farò il mio intervento di fronte alle ragazze che partecipano a PrimeMinister, la scuola di politica per le giovani donne italiane. E non la chiamerò mai “signor presidente”, bensì “presidente Giorgia Meloni” con il suo nome e cognome, perché non è un “underdog” bensì una donna del mio tempo che ha raggiunto un traguardo a cui ambiscono altre donne, per le quali è ora possibile aprire la strada sul merito, non sbarrargliela solo “in quanto donne”.
Finisco questa filippica con due piccole considerazioni. La prima è che le idee, come il desiderio di libertà, sono inarrestabili: sul contrasto alle discriminazioni di genere stiamo facendo un grande lavoro, non ci siamo mai fermatǝ (lettura obbligatoria per rivedere la strada fatta dalle donne italiane dal tinello alla Presidenza del Consiglio dei Ministri: “Il movimento femminista in Italia. Esperienze, storie, memorie”, di Fiamma Lussana, ed. Carocci) e capiamo ogni giorno di più che il femminismo è un modello vincente sotto ogni punto di vista: civile, sociale, economico, politico, ambientale, internazionale.
La seconda: sprecare energie mediatiche a sminuire la portata simbolica di una donna nella prima poltrona di Palazzo Chigi è francamente patetico. Per quanto ci si sforzi di ignorarlo, Giorgia Meloni rimane una donna. Lo è nella sua stessa narrazione politica, che pure l’ha paradossalmente portata ad avere il voto di molte donne libere quanto lei, di conservatori con radici contraddittorie, di un numero impressionante di immigrati anche islamici. I valori che propone sono in netta contraddizione con le libertà di cui gode: questo è il terreno di confronto su cui vale la pena spendersi. Non accettiamo e non accetteremo mai limitazioni alle libertà di cui lei stessa ha beneficiato e continua a beneficiare: non basteranno milioni di circolari per cancellare con un colpo di spugno il fatto che lei è lì ed è una donna esattamente come lo siamo noi.
Però è fascista: e questa è un’altra lotta, in cui da donne partecipiamo senza alcuna subalternità, ma con tutta la forza della nostra differenza.