“certi libri ti chiamano” dice il mio amico Rinaldo. e ha ragione.
mentre me ne stavo rintanata in grotta dentro i sassi di Matera a vederne la meraviglia oggi, con il profumo umido della pietra calcarea e le ultime notti tiepide, ho aperto per la prima volta il libro di Carlo Levi. da tanto volevo leggerlo; e non poteva esserci né posto né momento migliore.
nelle pagine piene di bello scrivere, la memoria si sovrappone alla storia. il narratore è lucido testimone e non ha paura a restituire la realtà vissuta.
con la forza della sua narrazione, Carlo Levi ha cambiato gli eventi. con le sue parole, che hanno trasferito sulla carta l’orrore degli occhi e l’angoscia dell’animo, ha fatto nascere la “questione meridionale”. e il dibattito è diventato questione, e la questione ha richiesto un’azione.
mentre ancora sono immersa in questo racconto di vite che mi sembrano lontane millenni-ma che invece sono parallele a quelle dei miei nonni e in parte anche dei miei genitori-, di ritorno da un breve viaggio a sud, in posti che non riconosco come casa perché la vita lì è così diversa da quella che conosco, non posso fare a meno di domandarmi quali contorni abbia oggi la “questione meridionale”.
una questione annebbiata dal patto di stabilità, dagli statuti speciali, camuffata dagli obiettivi a convergenza, sepolta dalla cancellazione della parola mafia dai giornali, dal mantra dell’economia sommersa, dalla punta di orgoglio nel raccontare che camorra e ‘ndrangheta si sono ripulite e adesso riciclano i soldi nelle spa e nelle srl.

eppure, io me lo ricordo un libro come quello di Levi. e mi ricordo la voce del suo autore, che trasformava in parole un senso diffuso di schifo e di voglia di rivalsa, un impasto fangoso di orgoglio e di rivendicazione.
me lo ricordo cosa provavo quando leggevo Gomorra. non è quella dolcezza romantica di Levi; eppure, la forza della narrazione è la stessa.
Saviano ha ricordato al mondo che la “questione meridionale” è tutt’altro che chiusa; e che la malaria oggi ha altri modi per infettare chi vive in miseria e rassegnazione.
le migliaia di carte di una sola sentenza non tolgono forza alla testimonianza di quella voce.
le voci della storia non le zittiscono i tribunali né tanto meno i quotidiani, che il giorno dopo sono già lettiera per gatti.
provateci: leggete Levi, qui sotto, e sostituite la parola “contadini” con “cittadini”.
ieri come oggi, se la parola rimane inascoltata, se la questione non chiama all’azione, allora non c’è speranza.

*

Che cosa avevano essi a che fare con il Governo, con il Potere, con lo Stato? Lo Stato, qualunque sia, sono “quelli di Roma”, e quelli di Roma, si sa, non vogliono che noi si viva da cristiani. C’è la grandine, le frane, la siccità, la malaria, e c’è lo Stato. Sono dei mali inevitabili, ci sono sempre stati e ci saranno sempre. Ci fanno ammazzare le capre, ci portano via i mobili di casa, e adesso ci manderanno a fare la guerra. Pazienza!
Per i contadini, lo Stato è più lontano del cielo, e più maligno, perché sta sempre dall’altra parte. Non importa quali siano le sue formule politiche, la sua struttura, i suoi programmi. I contadini non li capiscono, perché è un altro linguaggio dal loro, e non c’è davvero nessuna ragione perché li vogliano capire. La sola possibile difesa, contro lo Stato e contro la propaganda, è la rassegnazione, la stessa cupa rassegnazione, senza speranza di paradiso, che curva le loro schiene sotto i mali della natura. Perciò essi, com’è giusto, non si rendono affatto conto di che cosa sia la lotta politica: è una questione personale di quelli di Roma.
Questa fraternità passiva, questo patire insieme, questa rassegnata, solidale, secolare pazienza è il profondo sentimento comune dei contadini, legame non religioso, ma naturale. Essi non hanno, né possono avere, quella che si usa chiamare coscienza politica, perché sono, in tutti i sensi del termine, pagani, non cittadini: gli dei dello Stato e della città non possono aver culto fra queste argille, dove regna il lupo e l’antico, nero cinghiale, né alcun muro separa il mondo degli uomini da quello degli animali e de- gli spiriti, né le fronde degli alberi visibili dalle oscure radici sotterranee. Non possono avere neppure una vera coscienza individuale, dove tutto è legato da influenze reciproche, dove ogni cosa è un potere che agisce insensibilmente, dove non esistono limiti che non siano rotti da un influsso magico. Essi vivono immersi in un mondo che si continua senza determinazioni, dove l’uomo non si distingue dal suo sole, dalla sua bestia, dalla sua malaria: dove non possono esistere la felicità, vagheggiata dai letterati paganeggianti, né la speranza, che sono pur sempre dei sentimenti individuali, ma la cupa passività di una natura dolorosa. Ma in essi è vivo il senso umano di un comune destino, e di una comune accettazione. È un senso, non un atto di coscienza; non si esprime in discorsi o in parole, ma si porta con sé in tutti i momenti, in tutti i gesti della vita, in tutti i giorni uguali che si stendono su questi deserti.
– Peccato! Qualcuno ti ha voluto male -. Anche tu dunque sei soggetto al destino. Anche tu sei qui per il potere di una mala volontà, per un influsso malvagio, portato qua e là per opera ostile di magia. Anche tu dunque sei un uomo, anche tu sei dei nostri. Non importano i motivi che ti hanno spinto, né la politica, né le leggi, né le illusioni della ragione. Non c’è ragione né cause ed effetti, ma soltanto un cattivo Destino, una Volontà che vuole il male, che è il potere magico delle cose. Lo Stato è una delle forme di questo destino, come il vento che brucia i raccolti e la febbre che ci rode il sangue. La vita non può essere, verso la sorte, che pazienza e silenzio. A che cosa valgono le parole? E che cosa si può fare? Niente.
Corazzati dunque di silenzio e di pazienza, taciturni e impenetrabili, quei pochi contadini che non erano riusciti a fuggire nei campi stavano sulla piazza, all’adunata; ed era come se non udissero le fanfare ottimistiche della radio, che venivano di troppo lontano, da un paese di attiva facilità e di progresso, che aveva dimenticato la morte, al punto di evocarla per scherzo, con la leggerezza di chi non ci crede.
(pp 72 – 75)