i hate shopping

gli anni di università li ho condivisi con due coinquiline in gamba. che però avevano un vizio capitale: adoravano i romanzi della kynsella. loro li hanno letti tutti, scambiandoseli.
io ho retto col primo, come prova di amicizia.
ricordo ancora di essere arrivata a stento alla fine, abbattuta nel mio intimo dalla noia profonda per questo libro così inutile e poco interessante.
però, fedele al mio voto di amicizia eterna e molto curiosa dopo le polemiche che ho sentito, sono stata a vedere anche il film.
mi piacciono le serate al cinema con le amiche a vedere cose poco impegnative, magari perfino trash. non mi aspetto niente dal film perché tanto so già che la parte migliore sono i commenti condivisi alla fine, a un tavolino da bar.non mi aspettavo nulla da questo film, è vero.
ma tutto pensavo tranne che fosse un film dell’horror.
ho passato tutto il tempo rattrappita sulla sedia, inorridita da tutto: da lei, dalla sua goffaggine, dal suo malgusto, dalla sua stupidità eclatante, dalla sua totale assenza di moralità, da come riuscisse a dire sempre la cosa peggiore al momento peggiore e a fare le cose più stupide e insensate in ogni situazione.non potevo fare a meno di chiedermi perché di ogni battuta, di ogni scena. e anche mi sono chiesta se non esiste più la figura del revisore delle sceneggiature perché questa qui, di storia, proprio non sta in piedi.
non avrei mai pensato di dirlo, ma vi assicuro che il libro è molto, ma molto, ma molto più interessante e perfino intelligente del film.
e qui rientra in gioco il detto per cui quando mangi merda per un sacco di tempo anche il fango non sembra così male. ecco: il rapporto tra film è libro è più o meno lo stesso. il livello è così infimo per entrambi che l’unica cosa che ti aspetti è solo la coerenza, nulla di più.queste storie vanno raccontate per spegnere la testa e guardarsi un po’ di abiti in santa pace.ma qui anche lo stylist è stato pescato all’oratorio di un villaggetto nel connecticut. lei ha uno stile da sfigata e molla l’unico oggetto decente che si vede in tutto il film: un paio di stivali rossi di gucci davvero non male.

a parte la sceneggiatura davvero imbarazzante per chi si pecca di averla firmata, quello che mi ha scandalizzata è il fondo morale del film.
e mai come in questo caso, di fondo vero e proprio si tratta.
la becky del libro era una ragazzina irresponsabile che giocava con le carte di credito e poi imparava dalla vita che bisogna crescere e imparare a dare valore ai soldi.
la becky del film, invece, è una stronza eclatante, che non esita a barattare l’abito da damigella per il matrimonio della sua migliore amica con una specie di tovaglia viola in acrilico che si butta sulle spalle per un esordio televisivo in cui fa la figura di quella che è: un’immatura bugiarda.
e quando tutto va male perché lei non sa dare valore ai soldi come non lo sa dare agli affetti, torna da suo padre che le fa uno di quei discorsi da film americano il cui succo è però profondamente deviato: figlia mia, le dice, venderò il camper che ho comprato con i risparmi di una vita per ripianare i tuoi debiti e tu non devi preoccuparti ché questo paese è diventato grande proprio perché i suoi cittadini spendono molto al di sopra delle proprie possibilità.

dunque, anche agli occhi di suo padre, becky è una cittadina modello perché usa il mezzo simbolo degli Stati Uniti, cioè le carte di credito, nel modo migliore: per indebitarsi.
vorrei anche parlarvi del mondo descritto nel film, dove le donne hanno orgasmi multipli alla vista di oggetti di moda di qualsiasi portata ma dalla completa e assoluta inutilità.
il mio terrore, guardando questo film, è stato proprio questo: era come se gli oggetti di moda avessero in effetti un valore assoluto. mentre tutte noi sappiamo benissimo che la moda è passeggera e che anche il più bello dei vestiti è solo…un vestito.
non ci credo che esiste un mondo dove gli oggetti possono avere un valore così distante dal loro utilizzo.e senza addentrarmi in quello che sanno tutti, ossia che l’industria della moda e quella della merce di basso valore hanno gli stessi siti e procedimenti produttivi, mi limiterò a dire che chi si indebita per gli oggetti (e non, ad esempio, per il cibo o per i beni di prima necessità) fino a trovarsi seriamente dei guai andrebbe considerato un malato bisognoso di sostegno psicologico e non certo una simpatica canaglia con cui stringere una profonda amicizia.

chiudo con una piccola considerazione sui soldi.
il rapporto coi soldi è del tutto personale. alcune persone diventano insospettabilmente dei mostri quando si trovano a doversi confrontare a colpi di beni al portatore. quando frequento un uomo, so che posso accettare molti difetti, ma non l’avarizia. un uomo che non è generoso con quello che possiede non lo è nemmeno con i suoi sentimenti.
anche per questo motivo la specie di prequel malriuscito di ‘I love shopping’ della Kinsella che ho visto al cinema mi ha così turbato: perché è un inno all’egoismo irresponsabile e al malsano rapporto deviato con il denaro, in nome del quale sono azzerati perfino i sentimenti più nobili e che viene barattato con oggetti così futili che, a fermarsi e fare il punto di una vita spesa così, può venirne solo tanta pena.