Ho iniziato questo talk raccontandovi di come sono diventata amica di una ragazza fantasma.
Rimettendo in ordine i frammenti della sua storia, ho capito che il mondo in cui io (da madre, da professionista, da donna) mi sento a disagio è il risultato di una lunga somma di tradimenti a tutte le donne.
La guerra di genere è l’unica che non è mai finita, nel novecento.
La crescita della democrazia non ha incluso le donne come cittadini, ma le ha considerate strumenti, le ha divise tra utili e inutili.

il 1 dicembre ho avuto l’onore di essere invitata a tenere un talk per TEDx a Novara.
è stata una grande emozione per me. ed è stato anche un enorme impegno, che mi ha richiesto quasi un mese di lavoro per mettere a punto il discorso della vita, quello con l’idea che è importante trasmettere: chiara, precisa, in grado di aprire la mente di chi ti ascolta.
da subito per me è stato chiaro che volessi unire due cose: l’impegno quotidiano per un femminismo intersezionale e globale e la mia restituzione della storia di Evelyn McHale.
la registrazione del talk la trovate on line:

e siccome l’anima del TED è la condivisione, questo è il testo del mio discorso.

È IL MOMENTO DI RISCRIVERE LA STORIA
TIME TO REWRITE HISTORY

#ilsecolodelledonne #badwivesarmy

La pressione sociale esiste, ha un peso fisico.
Lo capiamo meglio quando non è esercitata su di noi, ma su qualcuno che amiamo.
Quando ho messo al mondo una piccola donna mi sono resa conto di cosa sopportano le donne, fin dalla loro nascita.
Viviamo in un mondo in cui ci sono molti modi giusti per essere uomo; ma nessun modo giusto per essere donna.
E ci viviamo da troppo tempo.

Fare o non fare figli separa le donne.
Tutte le persone possono fare molte cose, ma solo le donne possono fare altre persone.
A un certo punto della tua vita, se sei una donna, o sei madre o non lo sei.
In qualunque modo, che tu lo scelga o che questa condizione ti capiti, sarai sbagliata.

Se dico madre, nella testa di ognuno di voi si apre immediatamente una specie di grande catalogo di virtù e di azioni che spettano di dovere a una mamma.
Ce l’ho anch’io, naturalmente; anche se avere a che fare coi figli nella vita reale è un buon esercizio per ribaltare i propri preconcetti.
Volevo fare molte cose nella vita; ma diventare madre non è mai stato nei mei piani.
E poi, di colpo, è toccato a me.
Questo evento meraviglioso e magico si è abbattuto sulla mia esistenza come un’ascia. D’improvviso, ero a un bivio: come avrei potuto continuare ad essere la persona che desideravo diventare e, allo stesso tempo, essere una buona madre?
Tutti mi sorridevano: erano felici, entusiasti. Loro.
Io non mi sono mai sentita così sola.

La maternità mi ha insegnato moltissime cose.
Che ho molta più pazienza di quello che credevo.
Che non dormire per settimane ti rimette in forma (una dieta che tutti i genitori conoscono).
Che lo schifo può manifestarsi in forme sconosciute (e tutte di un esserino piccolo e tenero).
Ma più di tutto, che il futuro è una dimensione concreta, che possiamo abitare solo se restiamo connessi con il passato.
Escludere una delle due dimensioni della vita priva l’altra di senso.

Mia figlia Viola è nata una domenica notte di fine estate.
Qualche giorno dopo, mentre ero a casa [credo fosse notte, ma come sapete il tempo nei primi giorni di cura di un neonato è una dimensione confusa; e infatti Einstein ha immaginato la teoria dello spaziotempo dopo essere diventato padre…] il telefono ha squillato.
Lo ricordo come fosse adesso.
Dall’altra parte, un’infermiera emozionata mi chiedeva se la mia bambina stesse bene.
Le analisi prenatali avevano evidenziato che aveva una sindrome genetica rara.
Ogni buon proposito di essere una buona madre è dunque fallito al principio.
Avevo fatto una figlia malata: ero una cattiva madre, con un cattivo sangue.
Non mi sono mai sentita così sbagliata.

Dal giorno dopo, mia figlia è entrata in terapia.
Ma quella notte, tra il 5 e il 6 settembre 2009, io non ho chiuso occhio.
Ed è proprio lì che incontrato la donna che ha cambiato la mia vita.
In quel momento così difficile e confuso, in cui ero a pezzi, in cui non sapevo cosa sarebbe successo dopo, nessuna persona viva poteva capirmi e aiutarmi.
Mi ha aiutato una ragazza morta.

L’avete vista in mostra, citata sui cataloghi di fotografia, nei film, nei videoclip, sulle copertine dei dischi, nei servizi di moda.
È stata chiamata “il suicidio più bello del mondo” o, semplicemente, “fallen body”, il cadavere precipitato.
L’arte, il cinema, le riviste hanno sempre celebrato la bellezza del suo ritratto. Ma di lei, di chi fosse, dei suoi pensieri, nessuno davvero si è mai interessato.
Nella sua solitudine, mi sono specchiata.

Il suo nome era Evelyn McHale, aveva 23 anni quando la mattina del 1 maggio 1947 si è lanciata dalla terrazza più alta dall’Empire State Building, atterrando sul tetto di una limousine.
Dietro di lei, un vuoto di domande, con un breve biglietto di poche righe:

Non voglio che nessuno mi veda, nemmeno la mia famiglia.
Fatemi cremare, distruggete il mio corpo. Vi supplico: niente funerale,
niente cerimonie. Il mio fidanzato mi ha chiesto di sposarlo
a giugno. Ma io non sarei mai una brava moglie per nessuno.
Sarà molto più felice senza di me. Dite a mio padre che, evidentemente,
ho fin troppe cose in comune con mia madre.

Due cose mi hanno legato subito a lei.
Quell’espressione, “buona moglie”, che esattamente come “buona madre” aveva per me un significato chiaro, senza che nessuna di noi due si spiegasse. A distanza di settant’anni, questa etichetta è rimasta intatta, è sopravvissuta al millennio. E a me faceva lo stesso schifo che, evidentemente, faceva a lei.
E poi, il riferimento a ciò che di sbagliato l’accomunava a sua madre, qualcosa senza nome, delle “cose”. Una trasmissione di errore che mi chiamava direttamente in causa.
Quella notte ho adottato il cadavere di Evelyn McHale, a cui ho voluto restituire una storia; e lei ha adottato me, che avevo bisogno di un’amica che mi aiutasse a ridare valore alla mia vita.

Ho dedicato i successivi 8 anni a cercare di capire chi fosse Evelyn McHale, che significato avessero le sue parole, che cosa l’avesse portata lì.
E come succede spesso, la storia di una donna conteneva la storia di molte altre donne. Un intero secolo di donne.

Evelyn McHale è nata nel 1923 a Berkley in California ed era la sesta di sette figli.
Sua madre si chiamava Helen. Per molto tempo è stata una brava moglie e una buona madre; poi si è arresa.
Suo padre, Vincent era un uomo in carriera. E la sua famiglia era parte di questa carriera. Lavorava per la Federal Bank nel momento in cui, prima con il grande crack e poi con il new deal, il sistema bancario americano cresceva. Essere padre di una famiglia numerosa aveva un valore anche in termini di reputazione sul lavoro.
Quindi, Helen faceva i figli (sette!), teneva la casa e traslocava a ogni nuova promozione del marito.
Poi, a un certo punto, non ce l’ha fatta più.
Nel 1930 la famiglia arriva a Washington, Evelyn ha 7 anni e sua madre comincia a manifestare i primi segni di una profonda depressione.
Possibile che non fosse depressione? Possibile che fosse solo una donna infelice, insoddisfatta di una vita a servizio del marito, stanca di essere il migliore dei suoi biglietti da visita?
Possibile che non fosse felice, ma non avesse nessuno che desse valore alla sua infelicità?

Quando rileggiamo la storia, nei libri troviamo date precise.
1912: la marcia per il voto a New York
1916: l’apertura della prima clinica per la pianificazione delle nascite a Brooklyn
1917: la contestazione del presidente Wilson e l’arresto di 218 donne
1917: l’arruolamento massiccio in marina anche delle donne.
1921: la fondazione dell’ABLC, la Lega Americana per il Controllo delle Nascite, in cui per la prima volta si afferma che i figli devono nascere dal desiderio consapevole della madre ed essere concepiti nell’amore e non nella violenza.

Questa è la grande storia.
Ma cosa succedeva nelle case delle donne come Helen?
Ancora oggi, dopo tutti questi anni, ignoro il motivo per cui Helen Constance McHale Smith abbia cominciato ad allontanarsi dai suoi figli.
Letteralmente: se n’è andata di casa. O forse, è stata mandata via.
Se anche lei avesse un motivo, una ragione personale, un malessere profondo, qualsiasi fosse il suo motivo per andarsene, nessuno si è interessato di farcelo sapere.

Ma andiamo avanti.
Vincent ottiene la custodia dei suoi figli. Si trasferiscono a Tuckahoe, nello stato di New York.
Evelyn completa la scuola superiore, poi si arruola nelle WACs, le Women’s Army Corps che la destinano alla caserma di Jefferson, nel Missouri.
Le WACs sono spesso assenti dai libri di storia del ‘900.
Eppure, sono state decisive per la vittoria americana nel secondo conflitto mondiale.
Le donne sono state arruolate dopo tutti gli altri, persino dopo i neri.
Ma sono diventate indispensabili. Di più: le migliori.
Perfino nell’Army Air Force: furono quasi 40.000 le WACs destinate all’aeronautica militare. Nel 1945 erano impegnate in missioni all’estero con oltre 200 ruoli professionali diversi.
Un esercito nell’esercito.

Ma il più grande esercito di donne era quello nelle cucine americane.
Durante la seconda guerra mondiale, come scrisse il presidente Hoover, le munizioni più preziose erano le bistecche e i tagli pregiati di carne, da mandare al fronte per mantenere i soldati in forza e in salute.
Per questo, nel 1941 venne istituito un Comitato per le abitudini alimentari, che addestrò le massaie, a loro insaputa, a preparare per figli e mariti piatti con ingredienti definiti “esotici” per non dire schifosi: reni, fegato, interiora, lingua e ogni altro organo interno che rimaneva dalla macellazione dopo il taglio delle parti pregiate.

Quando finisce la guerra, nel 1945, Evelyn è a New York da tre anni.
Vive a casa del fratello a Long Island e lavora come impiegata nel distretto finanziario di Manhattan.
A una festa conosce l’uomo che le chiederà di sposarla: Barry Rhodes ha un anno più di lei, è un veterano dell’aviazione e studia ingegneria al Lafayette College a Easton in Pennsylvania.

Barry non poteva studiare prima della guerra; ma da veterano gli studi glieli ha pagati lo stato.
Fino al settembre 1946 l’operazione “Tappeto Magico” ha restituito un esercito di oltre 16 milioni di militari, per il 97% uomini, alla vita civile.
Per reintegrare nel mondo del lavoro quella massa di uomini adulti, il presidente Roosevelt sottoscrisse il “GI Bill” che copriva anche borse di studio fino a 4 anni.
Il GI Bill fu un grande successo: nel 1949, il 70% dei laureati americani erano veterani. L’alta formazione degli ex militari fu una spinta determinante per la rinascita economica degli Stati Uniti. E, sulla carta, quello fu il primo atto che puntava a una qualificazione del capitale umano senza discriminazioni di razza o di sesso.

Questa è la storia.
In realtà, per quelli come Barry e Evelyn, le cose andarono un diversamente.
Con il GI Bill le veterane invasero i college. Ma questo non comportò una ricaduta positiva nella loro vita professionale; al contrario.
Alla vigilia della guerra, una donna su due lavorava.
Nel 1950, era una su tre.
Parte delle misure di reintegro furono coperte chiudendo alcuni servizi attivati in tempo di guerra, quasi tutti in sostegno delle donne, come gli asili pubblici.
Secondo diversi sondaggi condotti nel dopoguerra, per conservare il posto di lavoro con cui avevano mantenuto la famiglia, all’80% delle donne furono imposti tagli di ore e di stipendio. Mano a mano che uscivano dai college, le donne vennero sistematicamente escluse dalle cattedre prestigiose, dai posti di comando, vennero loro negati riconoscimenti e promozioni.
Immagino che questo non vi sorprenda.

Il soffitto di cristallo, esattamente come le pressioni sociali, è una realtà, è una costruzione socio-culturale che pesa sulle spalle di ognuno di noi da troppo tempo.
Nel 1945 Evelyn è una giovane donna che vive e lavora a New York e fa progetti per il futuro.
Nel 1947 è una giovane donna che si toglie la vita e scrive nel suo biglietto di addio: non sarò mai la brava moglie di nessuno.
Possibile che nel grande sogno americano del dopoguerra non ci fosse alternativa per lei?

Ho iniziato questo talk raccontandovi di come sono diventata amica di una ragazza fantasma.
Rimettendo in ordine i frammenti della sua storia, ho capito che il mondo in cui io (da madre, da professionista, da donna) mi sento a disagio è il risultato di una lunga somma di tradimenti a tutte le donne.
La guerra di genere è l’unica che non è mai finita, nel novecento.
La crescita della democrazia non ha incluso le donne come cittadini, ma le ha considerate strumenti, le ha divise tra utili e inutili.
Siamo entrate oltre un secolo fa nell’attivismo politico; eppure ancora oggi, a ogni piccola conquista nella vita pubblica come in quella privata, dobbiamo rispondere sempre alla stessa domanda: a che cosa serve una donna?

Bene, è il momento di rispondere: le donne non sono funzioni.

La brava moglie, la buona madre, la donna dietro a un grande uomo, quella che accudisce, che cura: le donne non sono funzioni, ma persone.
Finché questa non sarà una verità per tutti, finché le nostre democrazie saranno sorde alle rivendicazioni delle donne, finché umilieranno la loro rabbia, finché questo confronto non avrà un altro piano, vedremo donne, di qualsiasi età, che si rifiutano di abbassare la testa, di chiedere scusa, di essere imprigionate in un ruolo. E che, piuttosto di essere umiliate, confinate a un valore di pura utilità, se ne vanno da questo mondo facendo un grande, vertiginoso salto.

SLS249187 Women in academic dress marching in a suffrage parade in New York City, 1910 (b/w photo) by Beals, Jessie Tarbox (1871-1942); Schlesinger Library, Radcliffe Institute, Harvard University; REPRODUCTION PERMISSION REQUIRED; American, it is possible that some works by this artist may be protected by third party rights in some territories
possible copyright restrictions apply, consult national copyright laws

Dal primo giorno in cui è arrivata, mia figlia mi insegna che la vita è un pezzo di cammino che percorriamo mano nella mano lungo la grande strada della storia che tracciamo insieme.
Se oggi sono femminista, se riconosco, rispetto e sostengo le rivendicazioni delle donne del mio tempo, è perché ho con me i fantasmi di tutte le donne della storia.
I libri delle date sono scritti dagli uomini.
E questa è una notizia grandiosa perché abbiamo ancora da scrivere la storia del novecento delle donne, l’esercito di tutte pessime mogli che hanno combattuto per essere persone.
Chi sono tutte queste donne? Dobbiamo sforzarci di ricordarci di loro, di che persone erano e non solo a cosa sono servite.

Il 1 maggio 1947 Evelyn è precipitata su una limousine. Quella macchina apparteneva a un uomo che stava contribuendo, insieme a molti uomini e poche donne, a scrivere quella che, l’anno successivo, sarebbe diventata la Dichiarazione Universale dei diritti umani.

Era il 10 dicembre 1948.
Ci sono voluti 65 anni perché le Nazioni Unite rendessero operativo un ente che si dedicasse a realizzare pienamente l’art.1 di quella dichiarazione per il primo soggetto di discriminazione, violenza e repressione: le donne di tutto il mondo.
Su tutte noi pesano le convenzioni sociali, le rigidità religiose, gli schemi culturali e le decisioni della politica, che compromette la nostra vita giorno per giorno, scelta per scelta.

Siamo alla fine di una storia e siamo nel mezzo di una nuova storia.
Quale sarà questa storia dipende da tutti noi, insieme.
È il momento di ricordare che esiste un’altra storia, più complessa, quotidiana e collettiva insieme: una storia fatta da molte, moltissime donne.
È il momento di cercare i loro indizi, ricomporre i frammenti delle loro vite, come persone e come protagoniste degli eventi.
È il momento di riaverle con noi, qui, ora, per essere le ombre benevole, le radici vive di tutte le battaglie che le donne stanno combattendo ancora adesso, in ogni parte del mondo.
Perché oggi più che mai: women’s rights are human rights!

Grazie a tutti.