Dico sempre che i libri non li trovi per caso: ti cercano. E io ho tra le mani in questi giorni un libercolo datato 1920 su cui, a pagina 31, è descritto magistralmente il centro intorno al quale ruotano molte delle storie che scelgo di scrivere. L’autore è Henry Cochin. E questo scrive:
Le storie degli amori troppo felici ci piacciono, ma ci producono insieme un senso di stanchezza e di noia, forse per la loro inverosimiglianza o forse per la loro monotonia. La storia dell’amore infelice tocca invece il fondo del nostro cuore; eccita quelle più umane fibre di pietà e di sensibilità che risuonano in noi così forte. Noi vediamo in essa l’eterno contrasto fra la felicità intravveduta e talora quasi raggiunta e l’insanabile infermità del nostro stato che non ci permette di avvicinarci a quella se non a lunghi intervalli, e non ci permette di sentirne tutta la dolcezza se non quando essa sta per sfuggirci. Ed è per ciò che, sia pure per un momento, hanno potuto godere di così alte gioie: v’è in queste qualche cosa che non si cancella mai intieramente, e che, anche allora quando sembra soccombere, trionfa. Come un prigioniero, anche se non oppresso da pesanti catene, è tuttavia padrone della sua libera anima; così noi siamo padroni dell’infelicità che ci colpisce e ci prostra, se non muore dentro il cuor nostro il ricordo della felicità di cui altra volta abbiamo goduto.