Quanto è reale il virtuale?

Quando stavo facendo casa, ripensavo spesso a uno sketch di Luciana Littizzetto in cui lei diceva che le parole-chiave che separano un progetto di vita (la casa, appunto) dal dissesto finanziario (indebitamento esponenziale) erano quattro: ‘già che ci sono’.
Ovvero: quando si fa o si ristruttura casa, bisogna non farsi prendere la mano o si rischia di spendere tantissimo per poi chiedersi ‘ma come ho fatto??’.
Ecco: io facevo casa e pensavo a Luciana. E sono riuscita, tutto sommato, a uscirne illesa finanziariamente. Potenza della risata che, quando ti entra dentro la testa, fa scattare dei campanelli efficaci che diventano verità tutte tue.

virtuality

Bene. Quando parlo di virtuale, invece, le parole magiche sono ‘tranne che’.
Provate!
Chiedete a qualcuno, ad esempio, se guarda la televisione. Vi dirà di no tranne che quel programma e quell’altro e quell’altro ancora.
Oppure se è dipendente dai social network. No,
tranne che xxxx perché c’è dentro qualcuno o perché non lo conosce nessuno.
Oppure se è dipendente dal telefonino. Ancora sarà no,
tranne che per mandare gli sms o chiamare qualche parente con un’offerta vantaggiosissima.
Insomma: quando si ha a che fare col virtuale, è un attimo convincersi che il nostro grado di immersione nel mondo del non-reale è comunque relativo, circoscritto, una parentesi.
E invece no. Il virtuale permea le nostre vite. Lo fa attraverso mezzi più innocui e riconosciuti (come la tv) e anche attraverso nuove tecnologie, magari più grintose e accattivanti. Nel grande mercato globale,
ogni target ha un prodotto, reale e virtuale. Il mercato non conosce nessun tranne che.

Ora, dato che la nostra vita è in gran parte virtuale, dovremmo cominciare a considerare il peso dell’etere, nelle nostre scelte e nella nostra condotta.
Troppo spesso la presenza di uno schermo ci fa sentire protetti e, così, ci lasciamo andare a cadute libere pensando che la rete ci possa salvare dai tonfi reali e da quelli morali.
Qualche giorno fa è capitato che una signora, in Giappone, ha scoperto sulla propria pelle cosa significa pagare per la propria condotta virtuale. La sua è una storia che merita di essere raccontata.Ha conosciuto un uomo, in un gioco di simulazione. Si sono confidati e innamorati e hanno coltivato una storia in rete. Il gioco permetteva la simulazione di molte situazioni, dalla vita mondana al sesso. I due avatar (ovvero, i loro alter-ego virtuali) si sono sposati. Poi, lui si è stufato e, utilizzando una funzione del gioco… ha divorziato.
La signora, impazzita dal dolore e dalla rabbia, ha
ucciso l’avatar del compagno. Virtualmente, s’intende: ha solo cancellato il codice del suo personaggio dal programma. Ma lui ha sporto denuncia per omicidio virtuale.Risultato: la signora ad oggi rischia fino a cinque anni di galera e quasi 400mila dollari di multa.
La legge giapponese, infatti, considera molto gravemente i crimini di hackeraggio (ossia di pirateria virtuale). Personalmente, provo molta compassione (nel senso di
com-patire, ossia di essere vicina) per la signora, che si è lasciata così coinvolgere da una relazione inconsistente, da perdere la testa e, immagino, soffrire terribilmente.
Per chi ammette, senza vergogna, quanto peso abbia la virtualità nella sua esistenza, è difficile non capire che le emozioni sono spesso reali e sincere e che le conseguenze emotive sono pagate in toto; anche se ci si salva da quelle concrete o perfino legali.
Non so cosa pesi di più per la signora, se l’incoscienza di aver commesso un reato per pura ingenuità e ignoranza, pensando solo di giocare o di fare un atto completamente virtuale e privo di conseguenze. Oppure se le bruci dover scontare ancora per un amore che per lei era reale e per l’altro era solo qualche riga in più di codice.

E, prima di giudicare, chi è senza peccato… invii il primo sms!