siamo cresciuti tutti con la Caffaro, nel bene e nel male. nel momento di piena produzione, quell’azienda dava lavoro a poco meno di mille persone. faceva la chimica delle acque. faceva la vita di mille famiglie, quasi seimila persone, un intero quartiere. stava dentro la città, ma ne trovavi le ramificazioni in tutta la provincia. dove c’era acqua, molto probabilmente lì c’era anche un pezzettino della Caffaro.
come un enorme ragno, dal corpo centrale, nel cuore di Brescia, la rete che serviva la fabbrica di estendeva sulle terre di confine, risaliva le valli, cercava le sorgenti.
un secolo dopo la sua apertura, avvenuta ufficialmente nel 1906, lo stabilimento di Brescia viene fermato e ridimensionato: la storia di un successo imprenditoriale è anche la storia di un delitto ambientale di proporzioni indicibili. un secolo di veleni, la cui evoluzione corre parallela alla cronaca degli eventi storici che hanno segnato il novecento, dalle produzioni belliche fino al boom delle lavorazioni plastiche e degli imperi multinazionali.

ogni giorno, ogni volta che passa lungo la via Milano, ogni bresciano, donna o uomo, grande o piccino, sa che quel muro sta lì perché dietro c’è un intero sistema che abbiamo ereditato senza volerlo. quello di un mondo dove salute e ambiente non erano un diritto, dove i soldi servivano anche a costruirsi ville in posti dove la povera gente non si vedeva e le contaminazioni non potevano entrare, dove al futuro non si era obbligati a pensare sul serio, dove chi è ricco comanda non si ammala non invecchia non muore non soffre, un mondo in cui i soldi non hanno odore e non fanno schifo a nessuno.

Caffaro ha inquinato Brescia per un secolo. fermarla è stato un atto dovuto. ma guarire la ferita è un’altra storia. letteralmente: occorreranno decenni per stabilizzare tutto il bacino sotto la soglia critica.
ogni momento degli anni in cui ho scelto di abitare in uno dei quartieri che affacciano sulla via Milano insieme ai miei due figli, ho sognato fortissimo che una mattina ci saremmo svegliati leggendo sul giornale che esisteva la soluzione: quella giusta, quella semplice, quella che ci avrebbe guarito tutti nel giro di poche settimane. e sotto sotto, quando sento e quando leggo gli sfoghi rabbiosi o assisto a dibattiti assurdi, provo tenerezza. facciamo tutti lo stesso sogno, ci raccontiamo tutti la stessa favola: le fiabe si avverano, i miracoli esistono, la magìa può avvenire, la soluzione può arrivare da fuori, saremo tutti innocenti, salvi; e potremo dimenticare.

la verità è che questa cosa non succederà. la bonifica del sito Caffaro sarà senza una fine. è un processo di trasformazione che chiede alla città (e non solo) di fare una riflessione profonda sul rapporto con la terra e l’acqua, sui valori del lavoro, su quali conseguenze siamo disposti a riversare sulle generazioni future pur di stare bene noi adesso oggi.
Caffaro non è un caso come gli altri. i passi in avanti fatti negli ultimi dieci anni sono tanti, ma la percezione del problema resta alta. parlarne serve, ma risveglia inevitabilmente il senso di frustrazione e di impotenza. per tutta Brescia, Caffaro è l’inquinamento : quell’iperoggetto che non riusciamo a comprendere perché è oltre le possibilità della conoscenza degli essere umani.

Un iperoggetto può essere un buco nero. Un iperoggetto può essere il centro petrolifero nell’area di Lago Agrio, in Ecuador, o la riserva di Everglades in Florida. Un iperoggetto può essere la biosfera o il sistema solare. Un iperoggetto può essere la somma complessiva di tutto il materiale nucleare presente sulla Terra. L’iperoggetto per eccellenza è proprio il riscaldamento globale, la cui caratteristica principale è quella di esistere su dimensioni spazio-temporali troppo grandi perché possa essere visto o percepito in maniera diretta.

così scrive Timothy Morton nel suo libro Iperoggetti (Nero ed, 2013). il novecento, secolo delle guerre totali, di due rivoluzioni industriali e del dominio globale del turbocapitalismo, ha lasciato a ogni nazione e a ogni territorio il suo personale iperoggetto: una ferita ambientale, sociale, culturale, economica, che ha compromesso la salute di un numero scandaloso di persone normali che hanno contribuito a quella ferita per la terribile e semplice ragione che lavorare gli era necessario per vivere. per Brescia, questo iperoggetto è la Caffaro.
se è vero che Caffaro non è l’unica fabbrica con un’impatto ambientale insostenibile, è stata di certo la peggiore. un primato mondiale di cui faremmo volentieri a meno.

abbiamo bisogno ogni tanto di fare un riassunto della strada percorsa dopo il fermo e l’assunzione di responsabilità collettiva. siamo al punto in cui gli spazi della vita di città sono restutuiti: le scuole, i campi sportivi, i cortili, i parchi gioco. siamo al punto in cui il muro si può abbattere e guardare oltre.
succederà davvero nei prossimi mesi: c’è un progetto di riqualificazione per tutta la via Milano; e dentro questo progetto c’è anche l’abbattimento del muro di cinta della fabbrica Caffaro.
succederà, tra poche settimane. sarà una cosa che non si è mai vista, sarà un’apertura, sarà emozionante, in positivo e in negativo. ci metterà di fronte alla concretezza della fabbrica, agli spazi, alle strutture, ai silos, alla razionalità degli spazi e dei materiali, al fatto che quella cosa lì aveva un suo senso, una sua ragione di esistere, un sistema di valori che l’ha legittimata per oltre un secolo.

nei giorni scorsi, insieme ad alcuni colleghi che lavorano al progetto di riqualificazione, abbiamo fatto un sopralluogo nella fabbrica. prima che cada il muro, ho potuto entrare e vedere cosa nasconde. ci sono ancora più di cinquanta persone che lavorano. si lavora ancora facendo la chimica delle acque. non è stata una gita come le altre. è stata emozionante come può esserlo scendere in un abisso o superare la stratosfera.

stiamo tutti – genere umano che continua a produrre iperoggetti che causeranno in un tempo molto vicino la nostra estinzione – cercando di capire dove andare, come agire, cosa possiamo fare.
né il cinismo né la satira né l’ironia fuori luogo né il disinteresse né l’opportunismo né l’ignoranza né tantomeno la fede o la superstizione ci terranno al riparo da questi pensieri e dal necessario confronto. non è solo una questione di odio, non è il rifiuto, non è sentirsi migliori di chi c’è stato prima, non è il senso di colpa, di riscatto, di vergogna. la repubblica è ancora fondata sul lavoro, il welfare è ancora un diritto da difendere, il bene comune è ancora un concetto vacuo, il passato è carico di rimorsi, il mondo è ancora un labirinto in cui è quasi inevitabile perdersi, gli iperoggetti sono ancora difficili da comprendere, il futuro è ancora ingovernabile.

qui sotto qualche immagine che ho scattato dentro la fabbrica. tra poco tempo il muro verrà giù e la vedremo tutti. l’unica cosa che so, è che sarà come aprire gli occhi dopo un incubo e tornare a guardare in faccia la realtà.