Ieri il Giornale di Brescia ha dedicato ben due pagine alla mozione votata in sessione straordinaria dal consiglio comunale di Verona, cogliendo l’occasione per un report sulla situazione bresciana. L’aver taciuto la finalità dell’operazione (dirottare risorse pubbliche), aver sorvolato su chi l’ha condotta (il condottiero leghista sull’omofobia) e qualche dato decontestualizzato (i numeri sulla RU), mi hanno spinta a scrivere ieri una lunga lettera al Direttore.
Scusatemi l’eccesso di passione.
Gentile Direttore,
intervengo sulla questione veronese relativa alla mozione 434 e mi unisco alle lettere che dimostrano l’interesse per il tema. E come potrebbe essere altrimenti? Come non gioire di un’intera città che si dichiara sulla carta “a favore della vita?
L’11 ottobre è la giornata mondiale dei diritti delle bambine. Da donna, da genitore, da cittadina, chiedo: quale mondo vogliamo contribuire a realizzare per queste donne in potenza? Io ne sto crescendo una e so che, per lei, contribuisco insieme a suo padre a un mondo dove ha diritto a considerarsi una persona, a studiare per la sua realizzazione ed emancipazione, a coltivare i suoi talenti e le sue passioni, a fare scelte lavorative che le garantiscano indipendenza economica, ad essere parte fondante della comunità, ad avere cura e rispetto del suo corpo non per essere desiderabile ma per essere felice.
Nella mozione veronese non c’è traccia dei padri. E nemmeno di un diritto fondamentale dei bambini: essere desiderati e accuditi con responsabilità. Obbligare le donne alla maternità è schierarsi contro i bambini rendendoli prima oggetti e, in futuro, adulti inevitabilmente fragili. La genitorialità non si limita alla fecondazione, ma è un’esperienza di vita che modifica le condizioni psicologiche, lavorative, economiche del singolo e della coppia.
Essere genitori oggi, nella banalità di un dibattito pubblico su posizioni ideali e non reali, ha un valore politico che va al di là della libertà individuale o della scelta di coppia. Se i migranti sono il problema del momento, che ha surclassato ogni altro dibattito sulle disfunzioni strutturali e le dispercezioni culturali del nostro paese, chi controbatte usa ragioni che potremmo sintetizzare così: “la nostra natalità è in calo, ci servono i migranti per sostenere il welfare”. Ecco allora che, subdolamente, l’obbligo a procreare figli italiani – espresso nel divieto di abortire – diventa la chiave di soluzione al problema nazionale della natalità. Una chiamata alle culle per amor di patria in cui le donne sono forzate a emettere dei “bot anagrafici di stato”, pari a quelli che dovrebbero tamponare le falle del DEF.
Fate più bambini italiani e non avremo più bisogno dei migranti, si legge tra le righe. Un’assurdità che banalizza il complesso problema delle fragilità sociali e della precarietà della vita e del lavoro, direttamente legati alla natalità. Una linea politica in cui le donne sono relegate alla funzione di incubatori. Su questa posizione si colloca il rigetto di ogni educazione per entrambi i generi alla relazione intima e affettiva paritaria, ispirata alla salute e alla prevenzione, basata sul consenso, la condivisione e la corresponsabilizzazione. Su questo principio rientra anche il tentativo di “comprare” i figli alle donne offrendo loro incentivi economici, durante e post parto. In questo solco si collocano le molte iniziative che la Regione Veneto e il Comune di Verona promuovono da tempo in favore della fertilità che non è genitorialità ma “potenza di fecondazione”, in cui la scelta delle donne è prima coartata e poi negata. Dal sostegno alla fecondazione assistita per donne già oltre il limite fisico e anagrafico dell’ovulazione fino alla celebrazione di un macabro anniversario dei bimbi mai nati, dalla sottrazione dei feti alle donne che hanno abortito (mozione 441, richiamata dalla 434) alla concentrazione dei sostegni economici alla dissuasione all’aborto, constatiamo che la linea dettata da Verona è profondamente contro le donne come persone, come genitori in diritto di scelta, come corpi sociali e, in definitiva, come cittadini.
Sono stata lieta di leggere la lettera della consigliera Albini che richiama i valori e la complessità a cui la 194 fece (e continua a fare) fronte. E sono fiera di abitare in una città che opera anche concretamente a favore della genitorialità, delle famiglie nella loro configurazione contemporanea reale e non idealizzata, che opera un accesso alle risorse pubbliche mediante linee di programmazione e progetti trasparenti su obiettivi di interesse pubblico, che come esempio di contesto urbano abitato da conflitti culturali e sociali legati all’integrazione porta concretamente un contributo alla crescita internazionale del dibattito sulle donne e i loro diritti.
Due note a fondo di questo intervento. La prima: in tema di genitorialità nelle coppie eterosessuali, anche i padri sono importanti; e lo sono non per autorità o diritto inalienabile, ma per responsabilità e capacità. L’assenza di un coinvolgimento degli uomini in ogni iniziativa di prevenzione per l’aborto è solo uno dei tanti sintomi del fatto che le gravidanze, desiderate oppure no, siano ancora solo un “problema delle donne”. La seconda: il consigliere promotore della 434 è stato oggetto solo quattro giorni più tardi di sfiducia da parte del suo stesso gruppo che con la mozione 499 ha preso le distanze dalle dichiarazioni omofobe rese alla stampa. Sarò vintage, ma io credo che essere persone di valore valga quanto fregiarsi di difendere dei (discutubili) valori.